Intanto quella della vigilia: non credete alle banalizzazioni, la
sera del patto del Nazareno non tutti avevano capito che l’accordo tra
Renzi e Berlusconi non sarebbe stato volatile e avrebbe retto a molti
scossoni; ma davvero pochi vedevano possibilità concrete oltre
l’approvazione, già ardua, della legge elettorale. Nessuno – neanche noi
– avrebbe messo un euro sull’abolizione del senato elettivo, per di più
a opera del senato stesso, entro sei mesi da quel clamoroso incontro.
Ciò che avvenuto nel frattempo (in sostanza, lo sbalorditivo
risultato delle Europee) s’è rivelato d’aiuto, ma avrebbe anche potuto
avere l’effetto opposto. Anzi, di nuovo nelle prime ore dopo quel voto,
il patto del Nazareno veniva per l’ennesima volta liquidato come morto. E
soltanto tre settimane fa profondi conoscitori del Palazzo escludevano,
di fronte alla durezza dell’opposizione incontrata, che il Pd riuscisse
a rispettare il termine che si era assegnato per l’approvazione del
nuovo senato, cioè il temerario 8 agosto.
Senza scomodare i gufi, c’è da prendere atto di una rotta politica capace di reggere a temporali e tempeste, reali e mediatiche.
Senza scomodare i gufi, c’è da prendere atto di una rotta politica capace di reggere a temporali e tempeste, reali e mediatiche.
Usiamo poi la prospettiva inversa. Quando guarderemo indietro, poco
sarà rimasto delle tormentate giornate di palazzo Madama.
L’ostruzionismo, le polemiche, le rotture politiche, tagliole e canguri.
Pochi, davvero pochi italiani, riterranno la democrazia mutilata per
aver perduto duecentoquindici posti da senatore, e per aver concentrato
l’attività legislativa in una sola importante camera, come è ovunque nel
mondo. Viceversa, senza confidare in alcun miracolo e aspettando
comunque l’approvazione definitiva della legge, la macchina
istituzionale italiana avrà avuto la sua più importante manutenzione dal
’47 a oggi. Nulla di risolutivo, ma tutt’altro che una sciocchezza,
anche considerando che stiamo parlando di una riforma della quale si
discettava vanamente da svariati decenni.
Questi risultati, visti così in maniera un po’ più ampia, portano
come è evidente la firma di Matteo Renzi, che ne sarà il primo
beneficiario politico (vedremo a quali condizioni). Ma altri soggetti
sono stati decisivi.
Il capo dello stato innanzi tutto, autentico regista di un’intera
fase, intervenuto senza clamore ma in maniera abbastanza evidente nei
momenti di impasse. Poi Silvio Berlusconi, la cui adesione al patto con
Renzi ha superato ogni aspettativa, in primis nel suo partito.
Il che ha un significato: per i sospettosi, nelle sue speranze di
ottenere improbabili salvacondotti; oppure più semplicemente nel
vantaggio che l’ex Cavaliere vede in un clima generale nel quale non c’è
più parossistica attenzione e ostilità nei confronti delle sue mosse di
Uomo Nero.
Una parola, e qualcosa di più, andrà spesa per Maria Elena Boschi: se
è vero che ha dovuto imparare facendo, e che certo è stata spesso
consigliata e anche guidata, è pur vero che superare certe strette e
certi momenti a 33 anni, alla prima esperienza politica, senza mai
perdere controllo e fiducia, è segno sicuro di talento.
Last but not least (anzi), i senatori del Pd, che hanno
tenuto in uno scontro anche psicologicamente difficile visto che,
personalmente, loro come i loro colleghi hanno tutto da perdere dalla
riforma approvata ieri. Il clima di scontro frontale li ha aiutati,
tagliando fuori un dissenso interno rimasto senza sponde, anche se tutti
potranno dire di aver contribuito a migliorare un testo iniziale molto
imperfetto. È sempre opportuno fare confronti col passato: se ripensiamo
al livello di auto-stima che c’era nei gruppi parlamentari democratici
appena un anno fa, sembra davvero un altro mondo.
E poi, ben oltre il Pd, parliamo di senatori che si auto-aboliscono:
qualcuno vorrà dare a queste persone un minimo di merito, in un’epoca
nella quale fare politica sembra essere qualcosa di cui vergognarsi e
basta?
La domanda principe rimane però un’altra, e cioè: quanto vale questa vittoria di Renzi?
Restringendo lo sguardo all’oggi, un risultato perfino insperato appare minato da due fattori.
Il primo è la fatica fatta, e l’immagine che fatalmente anche il
premier ha condiviso di un Palazzo della politica travolto e stravolto
da uno scontro spesso anche poco dignitoso su un tema di mera valenza
istituzionale. I numeri della votazione finale testimoniano della
durezza dell’opposizione incontrata. Ma era nel conto, del resto abbiamo
qui una maggioranza che il famoso quorum dei due terzi neanche lo
desidera. Piuttosto, partiti, gruppi e gruppetti che alla fine neanche
erano in aula a votare dovranno riflettere su un danno politico e di
immagine ben peggiore, che li colpisce come perdenti e anche come
avvelenatori del clima molto oltre l’effettiva posta in palio.
Il secondo fattore negativo è che la riforma, importantissima, arriva
però quando l’agenda e l’attenzione del paese sono tornate a
concentrarsi su una crisi economica peggiore delle peggiori previsioni.
Lasciamo perdere i commenti, che pure abbonderanno, tesi a sminuire
un risultato “inutile” perché tanto “la gente non mangia riforme”.
Questo è banale qualunquismo, da parte degli stessi che mesi fa vedevano
l’abolizione del senato elettivo come un obiettivo fuori dalla portata
di Renzi.
Il rischio vero è che il cambiamento promesso appaia – perfino oggi –
come una chimera al di sopra delle possibilità anche dell’unico che ci
abbia davvero provato e che sta dimostrando coerenza e determinazione.
In altre parole, la vittoria di palazzo Madama rafforzerà l’immagine di
Renzi come di un leader tosto e in grado di battere gli avversari.
Mentre rimarrà, venata di fatalismo, l’idea (per Renzi nefasta) che in
ogni caso contro il declino dell’Italia nulla e nessuno può, come fosse
un destino irrevocabile.
Dopo aver piegato gli ostruzionisti, il premier deve allora vincere i fatalisti.
Dopo aver piegato gli ostruzionisti, il premier deve allora vincere i fatalisti.
Non sarà facile, perché per quanto lui ne possa pensare e parlare
male i dati macroeconomici non sono gufate da stadio bensì indicatori di
un quadro che chiede più energie, più decisione nell’affondare il
bisturi nella cattiva spesa, più coesione nazionale, più orgoglio da
spendere sul tavolo europeo.
È vero, non è scritto da nessuna parte che l’Italia debba farcela per
forza. Ma non è scritto neanche che debba per forza capitolare.
Il voto di ieri a palazzo Madama, oltre ad aprire uno spiraglio di
speranza in una macchina legislativa più agile ed efficiente (obiettivo
per il quale siamo appena agli inizi), annuncia l’esistenza di una
maggioranza politica e di una leadership dotate di carattere e solidità,
flessibili ma tutt’altro che remissive, non propense al pessimismo.
Pare poco, invece è moltissimo.
Questo passaggio non scatenerà l’entusiasmo degli italiani, distratti
da tante altre cose. Darà però nuova fiducia a chi è chiamato a
governarli: un fattore indispensabile in vista di ciò che li aspetta, e
ci aspetta, in autunno.
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