Corriere della Sera del 19/08/14
L.Cr.
DAHUK (Iraq
settentrionale)
«Vendetta»: la parola echeggia ripetuta sempre
più forte e rabbiosa, come un urlo di battaglia, un modo per lenire
le ferite e trovare una ragione di vita. Non sono soltanto gli uomini
a rilanciarla tra la moltitudine dei sopravvissuti umiliati, offesi,
feriti nel profondo, delle comunità degli yazidi e dei cristiani
iracheni. Spesso sono anche le donne. Hanno perso famiglie intere,
figli, mariti, genitori. Alcune sono sole. Ora vorrebbero combattere,
prendere il fucile e imparare a utilizzarlo. «Mi sono armata e
pattuglio il nostro villaggio di Al Qosh con gli uomini della nostra
brigata di autodifesa. Non siamo tanti ma possiamo batterci», ci ha
detto ieri Basima Siffar, 55 anni, inquadrata con fucile e pistola
tra i gruppi militarizzati dei villaggi cristiani. Le più
determinate sono però le donne yazide. Incarnano direttamente la
sfida alla soldataglia del «Califfato» che le usa come schiave
sessuali, al meglio le converte per allevare la nuova generazione di
combattenti per l’Islam. Abbiamo colto più volte la volontà di
lotta tra queste donne nei campi dei profughi scesi dal caldo
soffocante delle montagne di Sinjar. La foto pubblicata oggi dal
Corriere in prima pagina ne simboleggia lo spirito. Una giovane,
quasi una ragazzina, con il kalashnikov a tracolla segue la folla dei
profughi in fuga. Facilmente la donna più matura e la ragazzina
alcune decine di metri di fronte a lei sono la madre e la sorella più
piccola. L’abbiamo mostrata agli yazidi dei campi profughi sul
confine tra Siria e Iraq. Spiegano che è stata presa sull’unica
strada asfaltata che attraversa i monti Sinjar, presso il villaggetto
di Kerse, dove si comincia a scendere verso il confine siriano. La
ragazza probabilmente ha preso il fucile del fratello, del padre o
del marito. «Gli uomini portavano in braccio i figli piccoli, le
donne li aiutavano portando le armi», spiegano i testimoni. Ma la
forza dell’immagine è indubbia. Arrivate al sicuro nei campi di
tende organizzati dall’Onu, alcune donne hanno deciso di
imbracciare il fucile e andare a combattere. Quante? Non sappiamo.
Dal campo profughi di Faysh Kabur sono partite almeno una decina.
«Non si sono unite ai peshmerga iracheni perché si sentono tradite
da loro. Promettevano di difendere gli yazidi, ma nel momento del
pericolo sono scappati. Per questo gli yazidi ora si offrono
volontari nelle brigate curde che operano in Siria», ci spiega
Youssef Iso Hassan, 25 anni, fuggito dal villaggio di Kojio. Lui con
la moglie Hinda Achmad, 30 anni, sono ora in un campo di
addestramento con le milizie curde in Siria. «Per Hinda combattere è
il solo modo per superare il trauma — spiega —. Ha perso 22
membri della sua famiglia materna. Non aveva mai toccato un fucile.
Ma ora è diverso. Non possiamo più tacere, uomini e donne, questi
crimini non possono restare impuniti».
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