PAOLO GARIMBERTI
La Repubblica - 26/8/14
L’annuncio del ministro degli Esteri
che la Siria potrebbe dare il suo benestare ad azioni militari
inglesi e americane sul proprio territorio contro i jihadisti dello
Stato islamico va valutato con molta serietà e un po’ di quel sano
realismo kissingeriano, che pare estinto nella diplomazia. Pur
sapendo che l’offerta è probabilmente dettata da una congiuntura
militare sfavorevole, piuttosto che da una improvvisa conversione
sulla via di Damasco da parte di Bashar Assad. L’esercito siriano
ha subito una terribile disfatta nei giorni scorsi perdendo la base
aerea di Tabqa, nella regione di Raqqa, la “capitale” del
Califfato di cui Abu Bakr Al Baghdadi si è autoproclamato leader.
Tabqa era diventata per Assad una sorta di Stalingrado della Siria
settentrionale, che andava difesa a ogni costo non solo per ragioni
militari, ma anche per una questione di immagine.
Invece in cinque giorni di battaglia
l’esercito siriano avrebbe perduto (difficile verificare le cifre
nella massiccia controinformazione reciproca) 170 uomini e, ancora
peggio, avrebbe ora 150 suoi militari prigionieri in ostaggio degli
islamisti.
La ragione primaria della “svolta”
di Bashar Assad potrebbe essere dunque quella di uscire dall’impasse
militare anche ricorrendo all’aiuto dei droni occidentali. Meglio
umiliarsi davanti agli Stati Uniti e la Gran Bretagna che capitolare
di fronte al “califfo”. Tanto più se, come ha detto il ministro
degli Esteri, l’umiliazione può essere mascherata richiamando la
risoluzione 2170 delle Nazioni Unite, che prevede sanzioni contro i
gruppi jihadisti che operano in Siria e in Iraq: infiocchettata così
come una prova di saggezza politica, di consapevolezza della “causa
comune” (la lotta all’estremismo islamico). E questa potrebbe
essere la ragione secondaria dell’offerta del regime di Damasco:
crearsi una credibilità come interlocutore della comunità
internazionale, in qualche modo mondarsi dei suoi peccati aiutando a
contenere la barbarie di Baghdadi e degli sgozzatori di Foley.
Qui non si tratta di scegliere tra due
malvagi. Perché non esiste una bilancia accreditata per pesare chi
uccide gli oppositori, torturandoli nelle proprie prigioni o
decapitandoli sul terreno. Così come non esistono guerre giuste o
ingiuste, ma forse (con molti forse e molti dubbi) solo guerre
necessarie, come quelle che spinsero qualcuno a parlare di
«intervento umanitario». Qui si tratta piuttosto di valutare
freddamente il quadro militare e le priorità politiche. È evidente
che i droni non possono essere usati senza che l’aviazione siriana,
che è ancora operativa, li lasci scorrazzare nel suo cielo. Così
come è difficile negare che oggi il “califfato” è una minaccia
per la comunità internazionale più grande che il regime di Damasco.
Ma al di là di queste valutazioni di
Realpolitik, sulle quali si può essere d’accordo o meno, non c’è
dubbio che la “proposta indecente” di Assad pone tutta una serie
di questioni all’Occidente (inteso nell’accezione storica del
termine), che dovrebbero costringerlo a sollevare il tappeto sotto il
quale negli ultimi venticinque anni, dalla caduta del Muro di Berlino
in poi, si è accumulata una tale polvere di conflitti irrisolti da
far dire a papa Francesco che è in atto una «terza guerra
mondiale».
Il primo che dovrebbe fare una sana
autocritica è Barack Obama, che ha fatto del disimpegno militare il
suo credo in politica internazionale, ma che forse oggi comincia a
rendersi conto che il confine tra disimpegno e acquiescenza è molto,
molto sottile. Un ripasso del realismo di George Bush padre, l’ultimo
presidente americano con una visione internazionale, che punì Saddam
per l’invasione del Kuwait ma lo lasciò al suo posto per non
destabilizzare la regione, forse farebbe molto bene al presidente di
oggi. E l’offerta siriana potrebbe essere una buona base di
partenza per questo ripasso.
Dopo Obama la pulizia della polvere
sotto il tappeto dovrebbe farla l’Europa, incapace dal 1990 a oggi
di far seguire a un trattato sull’unione economica e monetaria
(Maastricht) un accordo sulla politica estera e di sicurezza.
L’inconsistenza europea non è colpa della pur mediocre Lady Ashton
(così come non lo sarà del ministro degli Esteri Mogherini, se sarà
nominata). Qui è colpa dei vergognosi egocentrismi nazionalisti
(sciovinisti, talvolta) che imperano da Est a Ovest, da Nord a Sud di
quella che si chiama, pomposamente in questo caso, Unione Europea. E
se proprio non si è capaci di trovare rapidamente uno strumento,
almeno si usi come surrogato quello già esistente, la Nato.
Tralascio per carità l’Onu:
criticarlo è più facile che, come si suol dire, sparare sulla Croce
Rossa. Ma, almeno, che Stati Uniti e Europa dicano con unanime
durezza ai finanziatori arabi dell’autoproclamato califfo,
dall’Arabia Saudita al Qatar, che il loro comportamento non è più
accettabile. Va bene il ricatto petrolifero, vanno bene gli affari.
Ma quando il gioco si fa così duro da mettere a repentaglio la
sopravvivenza dell’Occidente (sempre inteso come sopra), allora è
il momento che i duri comincino a giocare a tutto campo. Ammesso che
nella squadra dell’Occidente ce ne siano ancora.
Nessun commento:
Posta un commento