Adriana Apostoli
L’assetto costituzionale del potere
giudiziario e, in particolare, la presunta inadeguatezza del «sistema
giustizia» italiano rispetto alle esigenze dell’organizzazione
sociale, sono da anni al centro del dibattito pubblico e alla base
della convinzione delle forze politiche della necessità di vaste
riforme dell’organizzazione giudiziaria e dei processi.
Tra gli elementi di «criticità» del
nostro modello di ordinamento giudiziario, sono stati evidenziati in
particolare due profili: da un lato, la mancata attuazione della VII
disposizione transitoria e finale della Costituzione, in base alla
quale, nel periodo successivo all’entrata in vigore della Carta del
1948, avrebbe dovuto essere emanata una nuova legge sull’ordinamento
giudiziario conforme alla Costituzione stessa; dall’altro lato,
l’annoso problema del contrasto tra politica e magistratura, che è
divenuto sempre più evidente negli ultimi anni ed è stato, fino a
tempi recentissimi, piuttosto aspro.
Quanto al primo aspetto, l’approvazione
di una nuova disciplina organica avrebbe dovuto, tra l’altro,
rimediare ai noti problemi dell’organizzazione giudiziaria, quali
quelli legati all’esistenza di norme processuali incongrue,
all’aumento progressivo della domanda di giustizia, alla
irrazionale geografia giudiziaria, all’insufficienza dei mezzi e
delle risorse, che rappresentano le principali ragioni della
inefficienza e della eccesiva durata dei processi. Invece, gli
interventi legislativi che hanno via via modificato o integrato le
norme sull’ordinamento giudiziario del 1941 non hanno fornito una
soluzione a tali problematiche, sia perché sono intervenuti in modo
disorganico e frammentario, sia perché non hanno mai realmente
affrontato quelle questioni.
Per quanto concerne il secondo profilo,
la mancata riforma della giustizia, il contenuto delle numerose
iniziative legislative che si sono invece indirizzate verso un
tentativo di ridefinizione dell’assetto costituzionale della
magistratura e, da ultimo, le supposte «invasioni di potere» da
parte dei magistrati (soprattutto nei confronti del potere politico),
hanno alimentato il ricordato contrasto. Sebbene il conflitto tra
giustizia e politica sia un problema riscontrabile anche in altri
Paesi, non certo solo in Italia, nel nostro ordinamento esso è stato
caratterizzato da tensioni particolarmente gravi, tanto da poter
essere ragionevolmente considerato come una delle principali ragioni
alla base dei molteplici tentativi di riforma dell’ordine
giudiziario che si sono susseguiti nel tempo.
È di questi giorni la presentazione di
un ulteriore disegno di riforma della giustizia. Al di là del
contenuto delle singole previsioni del progetto, quello che mi pare
opportuno debba sempre essere rimarcato quando si discute di riforma
della giustizia è che il legislatore non è libero di disciplinare a
suo piacimento tale materia, poiché in ciò incontra precisi limiti
di carattere costituzionale. La Costituzione, infatti, impone la
necessità di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura, quale presidio indispensabile per la protezione dei
diritti dei singoli.
È anche vero, d’altro canto, che per
scongiurare l’equazione «indipendenza-immunità» è altresì
necessario che i valori dell’autonomia e dell’indipendenza
vengano coniugati con una ragionevole apertura verso la collettività
e con il principio di responsabilità.
Tuttavia, proprio perché la figura di
un giudice autonomo, indipendente ed imparziale costituisce la
garanzia fondamentale dei diritti individuali, il bilanciamento tra i
suddetti valori non potrà mai avere come esito una eccessiva
compressione del valore della indipendenza dei magistrati.
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