MARIANA MAZZUCATO
La Repubblica - 9/8/14
Caro presidente, ho visto dai giornali
che lei ha comprato il mio libro “Lo Stato Innovatore”, questo mi
ha suggerito l’idea di scriverle una lettera. L’Italia a crescita
bassa è tornata in prima pagina. Una delle tesi del libro è che per
tirarsi fuori da questo marasma è indispensabile rendersi conto di
dove sta il problema.
Il problema non sta in un settore
pubblico “burocratico” che in qualche modo ostacola la crescita
di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è
che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la
crescita nel settore privato è impossibile da ottenere.
Partiamo dal contesto: i problemi
dell’Italia non derivano da un eccesso di dimensioni e di spesa
riferito al settore pubblico, ma dal fatto che questo non è
sufficientemente attivo e in realtà non spende quanto i suoi
principali concorrenti in tutti gli ambiti fondamentali che
determinano la crescita della produttività (e quindi la crescita a
lungo termine del Pil), ossia capitale umano, istruzione, ricerca e
tecnologia. Il deficit italiano prima della crisi si attestava sotto
la media Ue. Ma se la produttività (e quindi il tasso di crescita
del Pil) è quasi ferma da 20 anni per l’assenza di investimenti di
questo genere, anche con un deficit relativamente basso il quoziente
debito/ Pil può continuare ad avere una crescita esponenziale
(perché il denominatore è statico).
Che fare? È proprio questo l’oggetto
del libro. Cosa intendo per Stato Innovatore? Intendo uno Stato che
sia disposto a pensare in grande e capace di farlo, che sappia
attirare i migliori cervelli nelle sue varie branche, gettare per
primo le basi in nuovi fondamentali comparti ad alto rischio, che
solo successivamente attireranno il settore privato. Che sia capace
anche di costruire un sano rapporto simbiotico, non parassitario, tra
i settori pubblico e privato, così che la crescita conseguente non
sia solo “intelligente”, ma anche più inclusiva.
Nel libro ricorro all’esempio
dell’iPhone per sfatare i luoghi comuni sulla Silicon Valley. Tutte
le tecnologie che rendono così “intelligente” quel telefono sono
state finanziate negli Usa dal settore pubblico: Internet, Gps, touch
screen e persino la nuova Siri a comando vocale. Lo stesso vale per
le biotecnologie, le nanotecnologie e la frattura idraulica (per
l’estrazione dello shale gas), tutti settori industriali frutto di
decenni di investimenti pubblici che hanno preceduto gli investimenti
privati. Steve Jobs era ovviamente un genio, ma al pari di altri
imprenditori statunitensi, ha “surfato” le gigantesche onde
create dallo Stato. In molti paesi europei oggi non sono i surfisti a
mancare, ma l’onda. E l’onda serve non solo nei comparti ad alta
tecnologia, ma anche in settori affamati di rinnovamento e
trasformazione, come il tessile, l’industria automobilistica e
l’agricoltura. Vale anche per l’arte, che diventerà un vero
patrimonio nazionale solo quando sarà posta al centro di una
strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione
informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale.
Il settore pubblico, ovviamente, non
può fare da solo. Serve un settore privato altrettanto impegnato.
Oltre ad avere uno dei tassi più bassi di spesa pubblica in R&S
(riferito al Pil) l’Italia registra anche uno dei livelli più
bassi di spesa privata nel settore. La responsabilità non è
imputabile alla “normativa”, ma all’assenza di una sana
tensione tra Stato e imprese. Un valido esempio? La Fiat attualmente
non investe in motori ibridi in Italia, ma lo fa negli Stati Uniti
perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio
dell’industria automobilistica. Ecco un altro mito che va a farsi
benedire: gli Stati Uniti, la patria del libero mercato, che
impongono le politiche industriali al settore privato. E non è certo
un caso unico. Il mitico Bell Labs, uno dei laboratori di ricerca
privata più innovativi, al centro della rivoluzione informatica,
nacque da un teso negoziato tra lo stato e At&t, all’epoca un
monopolio, in cui lo stato esigeva che gli utili privati fossero
reinvestiti nell’economia “reale”, in aree che creassero beni
pubblici.
Anche se il libro non si incentra sulle
società a capitale pubblico, bensì sul rapporto tra i settori
pubblico e privato, esamina con occhio critico il genere di strategie
che portarono alla nascita dell’Eni e dell’Iri, che ebbero
effettivamente un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia,
quando agivano in accordo con la loro mis- sione e attiravano manager
di massimo livello. Da pubbliche, ma indipendenti e guidate da
esperti, furono un successo. Una volta divenute semplice appendice
dei partiti politici smisero di funzionare — diventando il
problema, non la soluzione. In realtà, ironicamente, fustigando lo
Stato e spacciando la privatizzazione come panacea sarà estremamente
difficile attrarre le competenze che queste istituzioni pubbliche
richiedono, oggi come allora. A capo del Dipartimento dell’Energia
degli Stati Uniti poco tempo fa c’era un fisico premio Nobel,
Steven Chu. Ha fondato Arpa-e a cui ha dato l’incarico di
promuovere e finanziare la ricerca e lo sviluppo delle energie
rinnovabili, come fece a suo tempo la Darpa per Internet. Anche la
Germania oggi cresce non perché “tira la cinghia” ma perché ha
una banca pubblica strategica, la KfW, che offre capitale paziente
alle imprese e ai settori più innovativi- e di istituzioni
finanziate dallo Stato come la Fraunhofer, che creano le connessioni
tra scienza e industria mancanti in Italia.
Spero che queste riflessioni la
incoraggino a cambiare il modo di parlare di politica economica in
Italia, abbandonando i soliti discorsi che si trascinano pigri, come
se il problema stesse solo nel togliere la burocrazia, nelle riforme
del mercato del lavoro, e del fisco. Per arrivare invece a un
dibattito nuovo che sproni i settori pubblico e privato ad un
maggiore impegno mirato agli investimenti e alla crescita guidata
dall’innovazione. Il bonus di 80 euro al mese è indubbiamente
utile a molte famiglie in condizioni difficili, ma per una crescita a
lungo termine dei redditi, che abbia effetti decisivi sulla domanda
dei beni di consumo e sul tenore di vita, è necessaria una strategia
di innovazione industriale che porti più posti di lavoro, e
soprattutto ne migliori la qualità.
( Traduzione di Emilia Benghi) (
L’autrice ha scritto “ Lo Stato Innovatore” edito da Laterza ed
è docente di Economia dell’Innovazione all’Università del
Sussex)
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