BERNARDO VALLI
La Repubblica - 21/8/14
Tutto cambia, alleanze, confini, e
tutto resta incerto. Le prime, le alleanze, non sono sempre le
stesse, mutano secondo i conflitti. E i confini definitivi non sono
ancora tracciati. Il francese François Georges-Picot e l’inglese
Mark Sykes direbbero che il loro Medio Oriente è diventato un
groviglio inestricabile. Sarebbero inorriditi. L’arroganza
coloniale della loro epoca garantiva idee chiare. I due diplomatici
ridisegnarono la regione con un accordo. L’Asia Minor Agreement
creava nuove frontiere.
QUINDI , creava nuove nazioni sulle
spoglie dell’Impero ottomano, dissoltosi durante la Grande Guerra
(1914-1918). Si formò cosi un effimero Medio Oriente secondo gli
interessi di Inghilterra e Francia. Cent’anni dopo, in seguito a
rivolte, conflitti, colpi di Stato, invasioni e rivoluzioni, il Medio
Oriente è in preda a tanti drammi geopolitici simultanei che messi
insieme fanno una guerra destinata a sconvolgere la mappa di Picot e
Sykes. Con uno stile orientale, in cui politica e religione si
mischiano, il Medio Oriente cambia faccia come accadde più volte
all’Europa nel secolo scorso. L’ultima sanguinosa novità, lo
Stato islamico, che si vanta di tagliare la testa ai prigionieri,
occupa un incerto spazio tra la Siria orientale e il cuore del
limitrofo Iraq. È tutt’altro che stabile, soprattutto dopo
l’intervento aereo americano, ma si stende all’incirca tra la
provincia irachena di Diyala e la città siriana di Aleppo.
Al-Baghdadi, il suo capo, si è autoproclamato califfo, cioè
successore di Maometto. Ma la sua è una sinistra mascherata. Inganna
pochi musulmani (un miliardo e mezzo) sparsi nel mondo.
La sua forza militare si aggirerebbe
sui cinquantamila uomini, se si calcolano anche i saddamisti, cioè
gli irriducibili seguaci di Saddam Hussein, il defunto rais di
Bagdad, unitisi allo Stato islamico per opportunismo. I saddamisti
sono sunniti come Al Baghdadi ma non islamisti. Non sono fanatici
religiosi. Anzi, sono seguaci del Baath, un partito laico. La loro
speranza è di abbattere il potere sciita di Bagdad promosso
dall’invasione americana. Pur sognando una rivincita, i sunniti
laici starebbero già del resto abbandonando lo Stato islamico,
considerando insopportabile la convivenza.
Il califfato esercita una grande forza
di attrazione tra gli jihadisti o aspiranti tali in Marocco, in
Tunisia, in Egitto, nello Yemen, ansiosi di partecipare a “guerre
sante” con l’obiettivo di provocare rivolte nel mondo arabo,
abusando del richiamo all’Islam. E di estendere domani il terrore
in Europa e in America. Il padre spirituale in Iraq è stato Abu
Mussab Al-Zarqaui, ucciso in un attacco aereo americano nel 2006.
Zarqaui si fece conoscere attraverso un video in cui lo si poteva
ammirare mentre sgozzava con le proprie mani l’imprenditore
americano Nicholas Berg.
L’esibizione di riti macabri ha
sempre distinto l’estremismo jihadista. Le esecuzioni pubbliche
diventano cerimonie religiose. Gli stessi capi di Al Qaeda, pur
venerati come pionieri dallo Stato islamico, hanno sempre deplorato
quel vizio. L’accanimento contro le minoranze religiose, cristiane
o considerate estranee all’ortodossia sunnita, è un’altra
caratteristica del neo califfato autoproclamatosi a cavallo della
Siria e dell’Iraq. Gli sciiti, pur dichiarandosi musulmani, sono
degli eretici.
Lo Stato islamico accelera il processo
di disgregazione di due grandi paesi disegnati da Picot e Sykes un
secolo fa. Si è imposto in Siria in preda alla guerra civile anche
grazie alla tattica condiscendenza del regime di Damasco ansioso di
vederlo entrare in conflitto con l’opposizione laica. La manovra
del presidente Assad è in larga parte riuscita, poiché la lotta tra
laici e islamisti ha frantumato l’opposizione, e soprattutto ha
dissuaso gli occidentali a fornire veri aiuti militari ai nemici di
Damasco, per il timore che finissero nelle mani degli estremisti
religiosi. Meglio il detestato Assad che gli jihadisti al potere a
Damasco. Gli europei hanno finanziato invece lo Stato islamico
pagando milioni di dollari per liberare i loro cittadini rapiti.
Contro lo Stato islamico si sono create
alleanze insolite. Stati Uniti e Iran, avversari storici dall’avvento
del khomeinismo a Teheran (1979), si sono trovati fianco a fianco
nell’aiutare il regime di Bagdad minacciato dall’avanzata
jihadista. La Russia e l’Iran, sostenitori del regime di Damasco e
quindi in contrasto con gli Stati Uniti, si sono alleati con questi
ultimi sulla questione irachena. Un Iraq spaccato in più tronconi
(uno sciita, uno curdo e uno jihadista) non rassicura né Washington,
né Mosca, né Teheran.
Forse senza concertarsi, ma allo stesso
tempo e con la stessa urgenza, le tre capitali hanno agito al fine di
spingere alle dimissioni Nuri al-Maliki, primo ministro iracheno da
otto anni. Colpevole di avere drammatizzato il conflitto tra comunità
all’origine della tragedia attuale, Maliki si comportava come
l’intransigente capo della maggioranza sciita ed emarginava la
minoranza sunnita (20 per cento della popolazione), accentuandone la
frustrazione per il secolare potere perduto. L’arrivo alla testa
del governo di Bagdad di Haider al-Abadi, pure lui sciita ma meno
settario, più aperto alla collaborazione con le minoranze, sia
sunnita che curda, è uno dei risultati dell’alleanza tra gli
avversari russi, iraniani e americani.
Nell’altro conflitto mediorientale,
quello arabo–israeliano, si è creata una coalizione ancora più
sorprendente. Comunque senza precedenti. Il terzo scontro in cinque
anni tra Gerusalemme e Gaza è uno dei tanti sofferti capitoli della
interminabile e sanguinosa tenzone tra due popoli che si contendono
la stessa terra. Le altre volte, ancora nel 2012, lo Stato ebraico al
termine della battaglia con i militanti di Hamas si trovava
completamente isolato tra i paesi arabi vicini ansiosi di dimostrare
la loro inimicizia per lo Stato ebraico. In quest’ultima occasione,
non ancora conclusa, si è invece creata una inedita coalizione di
cui fanno parte di fatto, insieme a Israele, l’Arabia Saudita, la
Giordania, gli emirati del Golfo, e l’Egitto. È attorno a
quest’ultimo, il più grande paese arabo, che si è creata la nuova
alleanza. Vicino alla quale si muove l’Autorità palestinese,
quella laica di Cisgiordania.
A favorire la coalizione è stata
anzitutto la cacciata dal potere, l’anno scorso, al Cairo, del
presidente Morsi. Il quale era il capo dei Fratelli musulmani eletto
alla testa dello Stato dal primo libero suffragio universale diretto
nella storia del paese. Alla destituzione con la forza è seguita la
rapida nomina al suo posto del maresciallo Abdel Fattah el Sisi, con
un voto tanto vistoso da risultare singolare. L’esercito non ha
perso tempo. Ha decimato i manifestanti. Li ha imprigionati. Ha messo
all’indice la confraternita, di cui l’Hamas palestinese è
un’emanazione. Ed è adesso una zattera isolata. L’ostilità per
i movimenti islamisti si è riversata sul movimento palestinese di
Gaza, classificato anche come terrorista, al punto da far dimenticare
l’allergia suscitata un tempo da Benjamin Netanyahu. E cosi nel
nuovo Medio Oriente, dall’avvenire incerto, Israele non è più
isolato.
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