Corriere della Sera 24/08/14
Davide Frattini
Le milizie nere cominciano a
spadroneggiare per le strade della provincia di Raqqa nella primavera
del 2013. Quel pezzo di deserto a nord-est della Siria rappresenta il
primo cantone del Califfato che i fondamentalisti pianificano di
assemblare. È una regione ricca di petrolio, in qualche modo vitale
per il regime che da Damasco e attorno a Damasco già da due anni
combatte la rivolta. Eppure il clan di Bashar Assad aspetta fino alla
metà dello scorso giugno, fino a un paio di mesi fa, prima di
ordinare l’offensiva contro l’esercito irregolare, prima di
bombardarne le basi (oltre trenta raid), prima di attaccare quello
che resta il quartier generale dello Stato Islamico.
La
strategia è chiara agli oppositori e a quei diplomatici siriani che
sono stati parte degli ingranaggi. Bassam Barandi ha lavorato al
ministero degli Esteri e all’ambasciata di Washington, prima di
scegliere la defezione. Per il centro studi Atlantic Council scrive:
«In un raccolto perverso dei semi che lui stesso ha piantato per
schiacciare il movimento riformista, Assad adesso si presenta come un
utile alleato degli Stati Uniti, colpirà qui e là, fornirà
informazioni di intelligence». Una strategia che sembra chiara anche
agli americani: «Il governo siriano ha giocato un ruolo
fondamentale, ha creato la situazione che ha permesso allo Stato
Islamico di rafforzarsi, ha coltivato la nascita di reti
terroristiche, ha facilitato il passaggio di combattenti di Al Qaida
verso l’Iraq», ha commentato solo pochi mesi fa Marie Harf,
portavoce del dipartimento di Stato.
L’accademia militare di
West Point ha reso pubblici i documenti trovati nel 2007 in un campo
d’addestramento a Sinjar, nel nord dell’Iraq: mappano il percorso
di chi voleva unirsi — libici, tunisini, ceceni — alla guerriglia
contro gli americani, l’arrivo all’aeroporto di Damasco,
l’arresto da parte dei servizi segreti siriani, il rilascio una
volta appurato che non rappresentassero una minaccia per il Paese,
l’aiuto nell’attraversare il confine e andare dall’altra parte
a combattere. All’inizio della rivolta in Siria, il regime avrebbe
facilitato il viaggio di ritorno. «Assad ha permesso ai gruppi
fanatici di cannibalizzare la ribellione — spiega Izzat Shahbandar,
ex deputato iracheno e contatto tra Bagdad e Damasco, al quotidiano
Wall Street Journal —, l’obiettivo è stato forzare l’Occidente
a scegliere tra gli estremisti e il regime».
Quando un
parlamentare tra i più devoti, lo interrompe e gli urla «per te il
Medio Oriente è troppo piccolo, sei il leader di tutto il mondo»,
diventa chiaro che il presidente non sta per annunciare quello che i
siriani aspettano. E’ il 30 marzo del 2011, Assad parla alla
nazione, non promette cambiamenti, diritti civili, nuove elezioni.
Disegna quella che resta la linea strategica fino a oggi: accusa gli
stranieri (i Paesi arabi del Golfo) di aver ordito un complotto per
farlo cadere. L’unica concessione di quel periodo è un’amnistia,
un gesto di benevolenza verso chi è sceso in strada a protestare.
Solo che dalle carceri — dalla prigione di Sednaya, contornata
dalle montagne a nord di Damasco e dai racconti delle brutalità —
vengono lasciati uscire soprattutto leader fondamentalisti, quelli
che andranno a costituire le brigate islamiche.
L’opposizione
al dilemma del presidente americano Barack Obama (il nemico del mio
nemico è un mio alleato) è espressa sul piano tattico dall’analista
arabo Hassan Hassan sul New York Times : «È improbabile che il
regime sia a questo punto in grado di sconfiggere lo Stato Islamico,
anche perché è necessario l’appoggio della popolazione locale».
E sul piano etico da Amal Hanano, intellettuale siriana che vive
negli Stati Uniti: «Tener conto della situazione presente per
cercare una soluzione, non è solo ingenuo, è immorale». La
posizione dominante nell’amministrazione sembra quella di Ryan
Crocker, ambasciatore a Damasco tra il 1998 e il 2001: «Non sono un
sostenitore di Assad, ma lo Stato Islamico rappresenta una mi naccia
più grande alla nostra sicurezza».
Per Hanano significa
dimenticare che le prime manifestazioni a Deraa erano pacifiche, che
insegnanti, impiegati, lavoratori chiedevano la liberazione di
tredici ragazzini incarcerati e torturati per aver scritto slogan
contro il presidente sul muro di una scuola. Da allora i morti sono
diventati 191.369 fino ad aprile del 2014: un calcolo per difetto,
ammettono le Nazioni Unite.
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