Corriere della Sera 18/08/14
Di fronte agli orrori dell’Iraq e ai
conflitti che stanno insanguinando diversi angoli del mondo, si è
tentati di immaginare un’impossibile clonazione di dittatori e si è
costretti a constatare amaramente quanto sarebbero più opportune la
cautela e la riflessione prima di favorirne la caduta. Può suonare
disperante rivalutare il ruolo di personaggi negativi come Saddam,
Gheddafi, Mubarak e forse persino Milosevic, ma di sicuro non è il
caso di rimpiangere la politica estera di Bush, Blair, Clinton,
Sarkozy, basata sulla concezione sciagurata di ritenere esportabile
la democrazia con le bombe e che fosse sufficiente la liquidazione di
un regime per vedere la rinascita della società civile e la crescita
di nuove classi dirigenti. Oggi ci troviamo a fare i conti con le
conseguenze di interventi sbagliati, al più tardivi e non seguiti da
una forte politica di ricostruzione e sostegno del nuovo
corso.
Certo, è bene tenere presente che ogni conflitto
presenta cause ed effetti specifici e che in nessun caso le soluzioni
sono semplici. Ma ciò che sta accadendo in Iraq, in Siria, in Libia
e ciò che è già accaduto in Afghanistan, suscita soprattutto
interrogativi sulle strategie adottate, su risposte inadeguate a
situazioni apparentemente irrisolvibili. Si è costretti a constatare
oggettivamente la sconfitta di una politica, di una visione del mondo
e, in ultima analisi, dell’Occidente (Usa e alleati europei) per l’
incapacità di misurare le conseguenze di un’azione e di elaborare
rapidamente i rimedi nell’ambito di una governance mondiale che
tenga conto di altri sistemi politici e nuove potenze, oltre che del
contesto storico e sociale specifico.
Forse sarebbe stata
sufficiente la memoria storica. Ad esempio, ricordare che in
Afghanistan sono stati sconfitti prima degli americani l’impero
britannico e l’impero sovietico. Che i Balcani producono tragedie
con la stessa rapidità di un cerino acceso in un pagliaio. Che a
Bagdad sono finiti male tutti coloro che si sono presentati come
liberatori e che qui si ritiene sia stato avvelenato Alessandro
Magno. Che con grandi potenze come la Russia, dal tempo di Napoleone,
si devono trovare accordi nel rispetto di interessi reciproci, che
tengano anche conto delle sfere d’influenza.
Oggi la memoria
corta ci obbliga a valutazioni imbarazzanti, persino al di sotto
dell’etica. A ripensare come un «valore» prevalente la stabilità
di aree politiche e geografiche, a fare i conti con regimi ben al di
sotto di standard democratici. Del resto, esistono regimi e Paesi con
i quali si continuano a fare affari e investimenti senza interrogarsi
sui diritti e sulle condizioni sociali delle popolazioni. È un fatto
che il ritorno dei militari al potere in Egitto (una clonazione del
precedente regime?) rappresenti oggi un minimo di stabilità nella
regione, un attore indispensabile per il conflitto in Palestina e una
barriera all’islamizzazione radicale del Paese. È un fatto che la
spietata repressione in atto in Siria stia arginando la dissoluzione
del Paese e la consegna di territori e popolazioni al progetto di
califfato islamico. Ed è un fatto che la crisi ucraina non sia
risolvibile soltanto con le sanzioni contro la Russia di Putin.
Non
si tratta di nostalgia dell’immobilismo né di praticare la logica
dell’indifferenza di fronte ai crimini di regimi totalitari, ma di
comprendere la moltiplicazione di attori e la complessità globale
delle forze economiche, politiche e religiose in campo. Ovunque si è
preteso di sostenere o imporre soluzioni a senso unico, per quanto
motivate da ragioni etiche e valori democratici, i risultati sono
stati spesso peggiori rispetto alla situazione che si pretendeva di
cambiare. E oggi occorre correre ai ripari in condizioni
oggettivamente più difficili, come nell’Iraq devastato dal
terrorismo e dalle fazioni religiose.
Dopo il disastro iracheno,
ci si può naturalmente limitare ad armare i curdi e a un soccorso
umanitario dei cristiani e magari ad accoglierne qualche migliaio
nelle nostre città, mettendo così fra parentesi (come se si
trattasse di massacri o esodi di serie B) i profughi in fuga dalla
Siria e dalle coste africane. Ma — vista l’inconsistenza di
nobili ideali non sorretti da azioni conseguenti — sarebbe il
momento di scelte più pragmatiche e in ultima analisi più
intelligenti. Come? Con un atteggiamento più aperto verso il regime
di Teheran, indispensabile interlocutore per il mondo sciita e per
diverse aree di crisi in Medio Oriente. Con una valutazione più
attenta della crisi delle relazioni con la Russia, protagonista non
secondaria sullo stesso scacchiere. Con la massima attenzione alla
Turchia, il cui ruolo per la stabilità dell’area resta
fondamentale.
Nessun commento:
Posta un commento