Europa Quotidiano - 19/8/14
Pierluigi Castagnetti
Sembra che alcune crisi geopolitiche
degli ultimi vent’anni, in parte ancora rimandino a nodi che, con
un secolo di peso in più sulle spalle, è la Grande guerra ad aver
posto sul tappeto
Sempre più l’anniversario della
morte di Alcide De Gasperi è occasione per una riflessione più
storica che politica. Non è possibile e non è giusto infatti
trascinare una figura di tale spessore nell’attualità della
politica italiana dopo che sono trascorsi sessant’anni tanto densi.
Il contesto storico oggi è veramente molto diverso.
Restano certamente di De Gasperi alcune
lezioni per molti aspetti trascendenti un punto storico: il senso
dello stato, l’idea di stato democratico, il modello di repubblica
parlamentare, l’invenzione dell’Europa politica, il ruolo di
mediazione geografica dell’Italia fra Mediterraneo ed Europa,
l’ancoraggio occidentale, un’economia liberal-sociale, il
principio di laicità eticamente non agnostica.
Ma resta pure la vulgata secondo cui
una parte della sua vita non fu proprio indiscutibile, la prima
parte, quella che lo ha visto giovanissimo parlamentare a Vienna
(entrò nel parlamento asburgico nel 1911) con una posizione non
sufficientemente netta nei confronti della prima guerra mondiale.
Mussolini e gli irredentisti lo
accusarono di essere “austriacante”. Ed è proprio questo
giudizio che, in questo centenario della grande guerra, vorrei
eccepire.
Per capire il De Gasperi del 1914, o
del 1924, o del 1944 o, infine, del 1954 è utile un richiamo al Max
Weber della distinzione fra l’“etica della convinzione” e
l’“etica della responsabilità”. La prima è quella che guida i
religiosi e i rivoluzionari, la seconda è quella che dovrebbe
guidare gli uomini politici.
Etica della responsabilità significa
capacità di valutare i dati della realtà, fattibilità delle
scelte, conseguenze delle scelte. Negli anni che portarono al primo
conflitto mondiale De Gasperi era impegnato a costruire le condizioni
per una reale autonomia del Trentino all’interno dell’impero,
poiché questo era nella convinzione e nell’interesse della sua
gente, oltrechè della corona che non era invece consapevole della
necessità di articolare l’organizzazione statale in modo
autonomista.
Per questo fine cercò di costruire un
collegamento fra Vienna e Roma, lui stesso trattò direttamente con i
governi delle due capitali, in particolare si recò diverse volte a
Roma per parlare con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e con
papa Benedetto XV. L’obiettivo sembrava realizzarsi quando l’inizio
della guerra vanificò ogni sforzo.
Ma, soprattutto, quella guerra tanto
assurda e pretestuosa non solo non avrebbe potuto concludersi in
pochi mesi, come allora si diceva, ma sarebbe stata drammatica negli
esiti. De Gasperi riteneva che il maggiore male politico ereditato
dall’ottocento fosse il nazionalismo, virus politico foriero di
instabilità permenente, di sedimentazione di odio e incubazione di
vendetta.
In quel 1914 vide partire 60 mila suoi
concittadini per il fronte della Galizia (oggi Ucraina), praticamente
mandati al macello contro le armate russe (ne moriranno oltre
undicimila), con la militarizzazione del territorio dovette assistere
all’internamento in prigionia dell’intera classe dirigente
trentina (2500 persone, compreso il vescovo Celestino Endrici), e
allo sfollamento e la deportazione di altre 75 persone verso località
austriache e ceche. In tale quadro De Gasperi ritenne di dover
esercitare le prerogative della funzione parlamentare sia per
condurre una lotta politica in difesa della sua gente, sia per starle
fisicamente vicino nei luoghi di deportazione e sofferenza.
Ma vi è, come dicevamo, una ragione
politica che sta alla base della sua avversione a ogni forma di
nazionalismo. Pensava, infatti, che ogni nazionalismo (tedesco,
italiano o slavo) fosse un serio pericolo per la pace. Nell’Europa
centrale e in quella balcanica i popoli erano talmente mescolati tra
loro, che nessuna soluzione basata sul principio nazionalistico
(fatalmente etnico e religioso) avrebbe potuto realizzare una
condizione di stabilità: ci sarebbe stata sempre una minoranza
intollerata che a sua volta rivendicava un proprio territorio. Le
minoranze vanno tutelate con la politica dei diritti e non con i
territori: questa fondamentalmente la posizione di De Gasperi.
Dunque, nessuna viltà o ambiguità, ma
etica della responsabilità. La storia si incaricherà poi di
distribuire torti e ragioni di chi allora aveva posizioni diverse,
anche tra i cattolici italiani, dapprima anti-interventisti e poi
obbedienti. In realtà si realizzò quella guerra che Alberto Guasco
(Jesus, luglio 2014) ha definito la madre di tutti i nazionalismi,
genocidi, violazione dei diritti umani e internazionali che hanno
dilagato poi nel novecento. Fu la prima guerra veramente globale (non
solo per la presenza oltre a tutti i popoli europei degli americani,
ma anche degli indiani, australiani, canadesi, indocinesi, arabi,
africani), e la prima guerra “tecnologica” che registrò
l’esordio dei carri armati, degli aerei e persino delle armi
chimiche (i gas usati dai tedeschi a Ypres), una guerra che suonò
come anticipo di “tutta la violenza di un secolo”. E dopo quella
guerra, dieci milioni di morti, decine di milioni di feriti e
invalidi, la dissoluzione di quattro imperi, il trionfo
dell’ideologia nazionalistica.
Se osserviamo alcune crisi geopolitiche
degli ultimi vent’anni, in parte ancora aperte (pensiamo
all’Ucraina), dai Balcani all’ovale caucasico, dal Medio Oriente
(pensiamo all’Iraq, Siria, Libia, Israele-Palestina) ai vecchi
confini fissati dalla pace di Brest-Litovsk – rileva ancora Guasco
– ciascuno di questi teatri sembra rimandare a nodi che, con un
secolo di peso in più sulle spalle, è la Grande guerra ad aver
posto sul tappeto. Come se le conseguenze remote del primo conflitto
mondiale, più che remote, fossero prossime e future.
Senza dire poi della lacerazione
profonda che si determinò nel mondo cattolico di fronte a una
tragedia indescrivibile che solo Benedetto XV (l’“inutile
strage”) aveva visto, inascoltato, con lungimiranza evangelica,
lacerazione che ha segnato sicuramente De Gasperi, come si potè
vedere in tutte le scelte politiche che farà nel resto della sua
vita.
Ecco perché tutta la biografia del
grande statista trentino non ha registrato salti e tradimenti, ma
coerenza con quei principi (l’antinazionalismo, il pluralismo
religioso, razziale e politico) forgiati nella prova, nel dolore e
nel senso del tragedia vissuta personalmente in quegli anni, come si
coglie bene nel suo ultimo discorso del 1918 nel parlamento di
Vienna. In particolare lo ha dimostrato nella sapiente difficile
conduzione del secondo dopoguerra italiano e nell’impegno a
sconfiggere ogni traccia di nazionalismo attraverso l’avvio della
costruzione dell’unità politica dell’Europa.
Si può ben dire: quando le classi
dirigenti erano forgiate nel fuoco della storia!
Nessun commento:
Posta un commento