Corriere della Sera 10/08/14
Lorenzo Cremonesi
Fa un caldo torrido a mezzogiorno nei
cortili di cemento e sui prati ridotti a sterpaglia giallastra
attorno all’arcivescovado caldeo. Gli sfollati sono stremati. Hanno
costruito ripari di fortuna con coperte e tappeti stesi su corde
fissate tra il muro di cinta e i rari olivi. Oltre 8.000 persone,
tanti anziani, un numero sproporzionato (per noi occidentali) di
bambini, neonati di pochi mesi, molti disidratati, con la diarrea.
Una settantenne chiede insulina. Altri scrivono su foglietti di carta
spiegazzati nomi di medicinali che nessuno sa dove trovare. Decine di
carrozzelle arrugginite sono state donate dalle associazioni
umanitarie per gli infermi e sono usate come seggiole per i vecchi.
Le organizzazioni cristiane locali assieme alle agenzie dell’Onu
hanno improvvisato un servizio di mensa che distribuisce riso bianco,
pane, acqua in bottiglia. I servizi igienici sono quasi inservibili.
Gli unici abiti sono i pantaloni impolverati e le magliette dai
colori ormai indefinibili con cui sono fuggiti dalle loro abitazioni
nella piana di Ninive tre o quattro giorni fa. Odore di corpi non
puliti, cibo avariato, pozzanghere sporche, fogne a cielo aperto. «Il
pericolo delle epidemie è alle porte. Stiamo organizzando
l’evacuazione dell’arcivescovado e la loro istallazione in dieci
scuole cristiane qui nel quartiere di Einkawa», ci diceva ieri
mattina l’arcivescovo di Erbil, Bashar Warda.
E’ questa la
situazione che abbiamo incontrato in quello che al momento è il
cuore della tragedia dei cristiani iracheni. L’arcivescovado
funziona da centro organizzatore degli aiuti. Ha a che fare con
comunità ancora vibranti, forti di una religiosità autentica,
abituate a guardare ai prelati come leader. «L’emergenza riguarda
oltre 100.000 cristiani scappati di fronte all’avanzata dei
radicali sunniti da Mosul verso l’enclave curda. Ma il dramma non è
solo delle persone. E’ l’antica cultura della nostra convivenza
con i musulmani che viene cancellata. Il meccanismo della coesistenza
pacifica si è inceppato. Siamo di fronte a un Medio Oriente diverso
da quello che avevamo sempre conosciuto», esclama allarmato Warda.
Le sue parole sono un campanello di allarme. Occorre ascoltare bene i
racconti della sua gente per comprenderlo. Da lontano, è difficile
distinguere la valenza dei crimini che si stanno consumando nella
piana di Mosul. Qui ora c’è una Chiesa molto diversa da quella che
ai tempi di Saddam Hussein porgeva «l’altra guancia». C’è un
disperato grido di guerra. Una richiesta di aiuto alla cristianità
perché si mobiliti in difesa della fede. Tutti plaudono ai raid
aerei Usa. «Per fortuna sono arrivati loro. Devono sterminare i
criminali del Califfato. Speriamo che li ricaccino verso la Siria, a
morire nel deserto», dicono i responsabili della Chiesa e i loro
fedeli con parole sempre eguali. «Ma perché le bombe americane non
sono arrivate prima? E voi europei cosa aspettate?». I giovani
chiedono armi. Gli anziani approvano. «Le nostre sofferenze di oggi
sono il preludio di quelle che subirete anche voi europei e cristiani
occidentali nel prossimo futuro», dice il 47enne Amel Nona,
l’arcivescovo caldeo di Mosul fuggito ad Erbil. Il messaggio è
inequivocabile: l’unico modo per fermare l’esodo cristiano dai
luoghi che ne videro le origini in epoca pre-islamica è rispondere
alla violenza con la violenza, alla forza con la forza. Nona è un
uomo ferito, addolorato, ma non rassegnato. «Ho perso la mia
diocesi. Il luogo fisico del mio apostolato è stato occupato dai
radicali islamici che ci vogliono convertiti o morti. Ma la mia
comunità è ancora viva». E’ ben contento di incontrare la stampa
occidentale. «Per favore, cercate di capirci — esclama —. I
vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre
che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state
accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani.
Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e
coraggiose, a costo di contraddire i vostri principi. Voi pensate che
gli uomini sono tutti uguali — continua l’arcivescovo Amel Nona —
Ma non è vero. L’Islam non dice che gli uomini sono tutti uguali.
I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo,
diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa
vostra».
Tornando tra le tende di fortuna, tra file di sfollati
in attesa di un magro pasto, salta all’occhio la profonda
differenza tra i cristiani che sono riusciti a fuggire da Qaraqosh,
Al Qosh e dagli altri villaggi a sud di Erbil, e quelli che invece a
Mosul hanno sofferto i soprusi dei guerriglieri islamici. I primi
qualche cosa hanno salvato: soldi, coperte, un bagaglio, gli effetti
personali, l’automobile. Gli altri sono senza nulla, si dicono
fortunati di essere ancora vivi, e il loro terrore è contagioso. Dai
racconti fanno capire che la guerriglia islamica aveva un piano
preciso, ha giocato con loro come il gatto col topo. «La sera del
nove giugno siamo scappati verso le zone curde quando abbiamo visto
che le loro avanguardie entravano a Mosul. Le stesse colonne
dell’esercito iracheno in ritirata ci hanno suggerito di fuggire»,
dice tra i tanti Youssef Jibril Youssef, un carpentiere 52enne. «Dopo
una settimana i nostri vicini musulmani ci hanno telefonato per dire
che andava tutto bene. Potevamo tornare a casa. Nessuno ci avrebbe
torto un capello. E così è stato. Sembrava tranquillo. Io sono
anche tornato a lavorare. Attorno al 10 luglio è comparso un noto
capo guerrigliero, Haji Othman, assieme a due guardie del corpo con
il mitra a tracolla, la jallabiah sino alle caviglie, barba e capelli
lunghi stile afghano. Mi ha detto che non avevo nulla da temere, mi
ha dato il suo numero di telefono invitandomi a chiamarlo in caso di
bisogno, ma ha voluto anche il mio numero di telefono e conoscere
esattamente quanta gente vivesse in casa. Siamo qui per difendervi,
mi ha detto. Però andandosene hanno marcato il muro della mia casa
in vernice nera con la «n» stilizzata di «nasrani», che sta per
cristiani in arabo. Tre giorni dopo, abbiamo capito l’inganno.
Dagli altoparlanti delle moschee è arrivato un diktat che ci
presentava tre alternative: pagare una tassa periodica di centinaia
di dollari, la conversione all’Islam, oppure partire subito. Se non
avessimo obbedito, ci avrebbero tagliato la testa. Ma quando abbiamo
preso l’auto per andarcene ai posti di blocco ci hanno rubato
tutto: soldi, gioielli, bagagli, talvolta la stessa automobile. Le
nostre case sono state occupate, al peggio devastate».
A metà
pomeriggio i capi famiglia tra gli sfollati vengono convocati da
monsignor Warda nella basilica di San Giuseppe. Si è riusciti a
organizzare le scuole e un campo di tende Onu per accoglierli in modo
più decente. Ma subito tra l’altare e le panche della basilica si
scatena il dibattito. «Chi si occupa del nostro trasporto? Cosa fare
dei malati? E i nostri visti di espatrio? Perché non chiedete con
più forza l’aiuto della comunità cristiana mondiale?»,
protestano in tanti dal microfono che in genere serve per le prediche
della messa. Qualcuno denuncia che «decine di cristiani» sono
rimasti in mano ai jihadisti, potrebbero venire decapitati «entro
due giorni». Bashar Jibrail, ex guardiano di una delle basiliche
devastate a Mosul, è rabbioso: «Qui si sta consumando un genocidio.
Abbiamo paura che gli islamici prendano anche Erbil. Perché non ci
date fucili?».
Non solo di quelli c’è bisogno. Gli Stati
Uniti hanno cominciato, oltre ai raid aerei, i lanci di cibo e di
acqua per le popolazioni ancora assediate dai miliziani. La Gran
Bretagna ha mandato un volo umanitario in Kurdistan. La Francia ieri
ha annunciato la spedizione di aiuti. Qui l’arcivescovo cerca di
tranquillizzare la folla impaziente: «Il Papa da Roma continua a
lanciare appelli. Arriverà presto un suo inviato. Gli Stati Uniti
hanno intensificato i raid militari che stanno fermando
l’aggressione. State calmi. Ho incontrato il console americano e
cerco contatti con quelli europei. Ho chiesto che ci diano visti per
facilitare l’emigrazione». L’ultima frase è quasi buttata lì.
A pensarci bene, rivela un epocale mutamento da parte dei capi
cristiani. Nel passato si erano sempre adoperati affinché le loro
comunità restassero. Persino quando dieci anni fa c’erano stati i
sanguinosi attentati in serie contro le basiliche di Bagdad avevano
facilitato l’esodo verso Mosul e frenato l’emigrazione
all’estero. Ora non più. Segno che anche loro hanno cessato di
credere nel futuro dei cristiani in Iraq. Se potessero, partirebbero
tutti.
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