sabato 30 agosto 2014

In Europa non andiamo più con il cappello in mano

Simona Bonafè 
Europa  

A partire dal vertice di oggi a Bruxelles l’Italia mette sul tavolo l’idea di più flessibilità
Alle battute finali di questa estate pessima, non solo meteorologicamente, viene da rispolverare il mito di Cassandra, la profetessa che vaticinava con esattezza eventi funesti ma non veniva presa sul serio.
Guardiamo infatti cosa succede nei dintorni di casa nostra: la Russia invade l’Ucraina, Libia, Iraq e Siria sono il teatro di una nuova terribile prova di forza, il mondo occidentale si confronta con una minaccia che non ha precedenti rappresentata dal Califfato, il Medio Oriente si dibatte in una guerra che sembra da decenni un vicolo cieco.
Cercare la voce dell’Europa non è tanto attività improba, è semplicemente inutile, perché l’Europa non c’è.
L’inconsistenza e la perifericità dell’Unione europea di fronte ad un pianeta in ebollizione sono ormai purtroppo un dato di fatto.
Nel frattempo la crisi non smette di mordere, la disoccupazione raggiunge nuovi record, il segno meno non coinvolge più solo gli ultimi della classe ma contraddistingue anche i primi. Da questo punto di vista, il calo della produzione industriale che ha registrato la Germania è eloquente.
Ebbene quante Cassandre, in questi mesi ed in questi anni, avevano previsto lo scenario attuale e predicato soluzioni alternative, bellamente ignorate da Bruxelles?
Sentiamone una, l’economista Jean-Paul Fitoussi, professore emerito dell’Istituto di studi politici di Parigi e docente alla Luiss di Roma: «Pensare che riducendo i salari, creando disoccupazione, si sarebbe migliorata la situazione è un non senso. E la medicina sbagliata ha fatto ammalare chi si illudeva di stare bene, anche la Germania, la quale forse comincia a capire che l’austerità finirà con il mettere in crisi anche lei».
Ed anche Paul de Grauwe, già economista dell’Fmi, della Commissione europea e della Bce, oggi capo del dipartimento Europa della London School of Economics: «È chiaro cosa dovrebbe fare la Germania: investimenti pubblici per rilanciare l’economia in tutta l’eurozona e poi una moral suasion, oltre a stimoli fiscali, perché le imprese alzino i salari promuovendo la domanda. È l’unica ad avere margini di bilancio per poterlo fare».
Un’altra Cassandra è stato Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia 2001 e docente alla Columbia University: «Vanno abbandonate le politiche di austerità e bisogna puntare invece su politiche per favorire la crescita, sfruttando ad esempio i fondi per finanziare le piccole e medie imprese che faticano ad ottenere credito, e investendo su istruzione e innovazione tecnologica».
Finiamo con un altro premio Nobel, Amartya Sen, che nel 2013 affermava: «Il tracollo europeo nasce una politica d’austerità fallimentare che ha prodotto l’attuale scenario di povertà e disoccupazione. Lo dico in qualità d’economista, perché la nostra è una scienza empirica. E una legge fondamentale dell’esperienza è imparare dagli errori. Il regime d’austerity, in vigore da anni, sta conducendo al baratro l’Europa».
E allora torniamo al punto, a quel «per salvare l’Europa, bisogna cambiare l’Europa», pronunciato da Matteo Renzi all’indomani delle elezioni europee.Da qui ripartiamo, dal vertice straordinario che si apre oggi pomeriggio. E ripartiamo da una posizione chiara e forte dell’Italia, che in questi mesi non è stata con le mani in mano, ma ha fatto proposte e tessuto alleanze.
Da questo punto di vista merita una sottolineatura la candidatura del ministro Federica Mogherini a Mister Pesc e conseguentemente vice presidente della Commissione, ovvero ad un ruolo e ad una funzione rilevantissima e strategica per il nostro paese.
Forse è questa nuova centralità che l’Italia si è conquistata, anche grazie al 41% ottenuto dal Pd alle recenti elezioni, che infastidisce lobby e potentati di vario genere: l’Economist disegna Renzi con il gelato ma il problema è che non possono più vederci, come in passato, con il cappello in mano.
Sul tavolo del vertice di Bruxelles c’è la proposta di avere più flessibilità sui conti, con un sistema che consenta di fissare le riforme più importanti per il Continente e premiando con incentivi i paesi che riescono ad approvarle.
In tale contesto il disegno di politica economica del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è fortemente in sintonia con le linee guida avanzate dalla presidenza italiana dell’Europa. Riforme strutturali, dice quindi Draghi. E le riforme strutturali sono l’agenda del governo italiano. Lavoro, giustizia, fisco, scuola, competitività: dipendono da noi, non da Draghi o dalla Merkel. O li risolviamo noi, o non li risolve nessuno.
Ho cominciato con Cassandra, finisco con la generazione Telemaco citata da Renzi all’inizio del semestre a guida italiana. «Noi non vediamo il grande frutto dei nostri padri come un dono dato per sempre, ma come una conquista da rinnovare giorno dopo giorno», disse il premier a Bruxelles.
Ecco quei giorni sono arrivati, ora dobbiamo dimostrare di essere in grado di superare una crisi epocale e di contribuire ad una nuova stagione di crescita dell’Europa, all’altezza della sua storia.

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