foto del giorno
domenica 31 agosto 2014
....Scalfari....illeggibile...
La Tribuna di Lor Signori, dei critici di professione, non è mai doma.
Federica Mogherini è Lady Pesc
Il Consiglio europeo ha anche nominato come nuovo presidente il premier polacco Donald Tusk. Gli auguri di Giorgio Napolitano al ministro: «Un importante riconoscimento per l'Italia. Il nostro governo ha contribuito a risolvere il problema degli incarichi Ue»
L’odio di Riina: uccidiamo don Ciotti
SALVO PALAZZOLO
La Repubblica - 31/8/14
Non solo l’ordine di morte per il pm
Di Matteo. Dal carcere dove è rinchiuso il boss mette nel mirino
anche uomini di chiesa Scatta l’allerta, rafforzata la scorta al
fondatore di Libera. “È come don Puglisi, che invece di dire messe
voleva fare tutto lui”
Don Luigi Ciotti, l’instancabile
animatore di Libera, come don Pino Puglisi, il parroco ucciso dai
boss nel 1993. Per Salvatore Riina non ci sono differenze: «Questo
prete è una stampa e una figura che somiglia a padre Puglisi». E
deve fare la stessa fine: «Ciotti, Ciotti, putissimu pure
ammazzarlo». Il capo di Cosa nostra va su tutte le furie quando
sente in tv che la Chiesa vuole rilanciare il messaggio di don
Puglisi appena fatto beato. E all’ora d’aria consegna parole
durissime al suo compagno di passeggiate, il boss pugliese Alberto
Lorusso. Sul prete ucciso e su «quello che gli somiglia tanto».
«Il quartiere lo voleva comandare iddu
— dice Riina di don Puglisi, con tono di disprezzo — Ma tu fatti
il parrino, pensa alle messe, lasciali stare… il territorio… il
campo… la Chiesa… lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva
fare iddu nel territorio… tutto voleva fare iddu, cose che non ci
credete». È la chiesa impegnata nel territorio che fa infuriare
Riina. Da don Puglisi a don Ciotti il passo è breve. Riina lancia
subito l’idea di un altro omicidio eccellente contro un
rappresentante della Chiesa: «Ciotti, Ciotti, putissimu pure
ammazzarlo», dice. «Salvatore Riina, uscendo, è sempre un pericolo
per lui… figlio di puttana». È il pomeriggio del 14 settembre
dell’anno scorso, la vigilia del ventasimo anniversario
dell’omicidio di don Pino Puglisi. Le parole pronunciate da Riina
mettono subito in allarme gli investigatori della Dia di Palermo, che
ascoltano in diretta. Viene avvertita la procura antimafia. E nel
giro di poche ore parte una nota riservata al Viminale, per
sollecitare nuove misure di sicurezza attorno a don Luigi. Sono
giorni convulsi quelli, fra Palermo e Roma. Un altro allarme è già
scattato per il pubblico ministero Nino Di Matteo, l’animatore del
pool “trattativa”: anche lui Riina vuole uccidere e a Lorusso dà
un ordine esplicito, «facciamolo in fretta». Oggi, le misure di
vigilanza attorno a don Ciotti sono state rafforzate, anche se la sua
scorta resta affidata a due poliziotti. Di certo, il sacerdote non ha
mai saputo nulla delle minacce di Riina. «Però, da alcuni mesi,
arrivano segnali inquietanti e in parte indecifrabili a don Luigi e a
Libera», dice Gabriella Stramaccioni, collaboratrice del sacerdote.
«Le parole di Riina sono la conferma di questo clima, c’è da
capire a chi il boss stia parlando ».
Il capomafia spiega a Lorusso, a
proposito di Ciotti: «Dice che voleva parlare con me, prima con
l’avvocato, poi con mia moglie». In realtà, le cose andarono
diversamente a metà degli anni Novanta: fu la moglie di Riina, dopo
il suo ritorno a Corleone, a chiedere un incontro con il sacerdote.
Ninetta Bagarella era preoccupata per la sorte dei figli. Ciotti si
disse disponibile a un colloquio in carcere con Riina, ma pose una
condizione: «Deve essere il detenuto a chiederlo ». Riina si
rifiutò. E adesso ha parole pesantissime per il sacerdote che il 21
marzo scorso era al fianco di Papa Francesco, nella chiesa di San
Gregorio VII, a Roma, per accogliere i familiari delle vittime di
mafia. «È malvagio, è cattivo — ripete Riina — ha fatto strada
questo disgraziato ». E presto si comprende la ragione di tanto
odio. «Sono sempre agitato — spiega il padrino di Corleone —
perché con questi sequestri di beni…». I beni sequestrati vengono
poi gestite da tante cooperative che aderiscono a Libera.
sabato 30 agosto 2014
In Europa non andiamo più con il cappello in mano
Simona Bonafè
Europa
A partire dal vertice di oggi a Bruxelles l’Italia mette sul tavolo l’idea di più flessibilità
Alle battute finali di questa estate pessima, non solo
meteorologicamente, viene da rispolverare il mito di Cassandra, la
profetessa che vaticinava con esattezza eventi funesti ma non veniva
presa sul serio.
Guardiamo infatti cosa succede nei dintorni di casa nostra: la Russia
invade l’Ucraina, Libia, Iraq e Siria sono il teatro di una nuova
terribile prova di forza, il mondo occidentale si confronta con una
minaccia che non ha precedenti rappresentata dal Califfato, il Medio
Oriente si dibatte in una guerra che sembra da decenni un vicolo cieco.
Cercare la voce dell’Europa non è tanto attività improba, è semplicemente inutile, perché l’Europa non c’è.
L’inconsistenza e la perifericità dell’Unione europea di fronte ad un pianeta in ebollizione sono ormai purtroppo un dato di fatto.
L’inconsistenza e la perifericità dell’Unione europea di fronte ad un pianeta in ebollizione sono ormai purtroppo un dato di fatto.
Nel frattempo la crisi non smette di mordere, la disoccupazione
raggiunge nuovi record, il segno meno non coinvolge più solo gli ultimi
della classe ma contraddistingue anche i primi. Da questo punto di
vista, il calo della produzione industriale che ha registrato la
Germania è eloquente.
Ebbene quante Cassandre, in questi mesi ed in questi anni, avevano
previsto lo scenario attuale e predicato soluzioni alternative,
bellamente ignorate da Bruxelles?
Sentiamone una, l’economista Jean-Paul Fitoussi, professore emerito
dell’Istituto di studi politici di Parigi e docente alla Luiss di Roma:
«Pensare che riducendo i salari, creando disoccupazione, si sarebbe
migliorata la situazione è un non senso. E la medicina sbagliata ha
fatto ammalare chi si illudeva di stare bene, anche la Germania, la
quale forse comincia a capire che l’austerità finirà con il mettere in
crisi anche lei».
Ed anche Paul de Grauwe, già economista dell’Fmi, della Commissione
europea e della Bce, oggi capo del dipartimento Europa della London
School of Economics: «È chiaro cosa dovrebbe fare la Germania:
investimenti pubblici per rilanciare l’economia in tutta l’eurozona e
poi una moral suasion, oltre a stimoli fiscali, perché le imprese alzino
i salari promuovendo la domanda. È l’unica ad avere margini di bilancio
per poterlo fare».
Un’altra Cassandra è stato Joseph Stiglitz, premio Nobel per
l’economia 2001 e docente alla Columbia University: «Vanno abbandonate
le politiche di austerità e bisogna puntare invece su politiche per
favorire la crescita, sfruttando ad esempio i fondi per finanziare le
piccole e medie imprese che faticano ad ottenere credito, e investendo
su istruzione e innovazione tecnologica».
Finiamo con un altro premio Nobel, Amartya Sen, che nel 2013 affermava: «Il tracollo europeo nasce una politica d’austerità fallimentare che ha prodotto l’attuale scenario di povertà e disoccupazione. Lo dico in qualità d’economista, perché la nostra è una scienza empirica. E una legge fondamentale dell’esperienza è imparare dagli errori. Il regime d’austerity, in vigore da anni, sta conducendo al baratro l’Europa».
Finiamo con un altro premio Nobel, Amartya Sen, che nel 2013 affermava: «Il tracollo europeo nasce una politica d’austerità fallimentare che ha prodotto l’attuale scenario di povertà e disoccupazione. Lo dico in qualità d’economista, perché la nostra è una scienza empirica. E una legge fondamentale dell’esperienza è imparare dagli errori. Il regime d’austerity, in vigore da anni, sta conducendo al baratro l’Europa».
E allora torniamo al punto, a quel «per salvare l’Europa, bisogna
cambiare l’Europa», pronunciato da Matteo Renzi all’indomani delle
elezioni europee.Da qui ripartiamo, dal vertice straordinario che si
apre oggi pomeriggio. E ripartiamo da una posizione chiara e forte
dell’Italia, che in questi mesi non è stata con le mani in mano, ma ha
fatto proposte e tessuto alleanze.
Da questo punto di vista merita una sottolineatura la candidatura del
ministro Federica Mogherini a Mister Pesc e conseguentemente vice
presidente della Commissione, ovvero ad un ruolo e ad una funzione
rilevantissima e strategica per il nostro paese.
Forse è questa nuova centralità che l’Italia si è conquistata, anche grazie al 41% ottenuto dal Pd alle recenti elezioni, che infastidisce lobby e potentati di vario genere: l’Economist disegna Renzi con il gelato ma il problema è che non possono più vederci, come in passato, con il cappello in mano.
Forse è questa nuova centralità che l’Italia si è conquistata, anche grazie al 41% ottenuto dal Pd alle recenti elezioni, che infastidisce lobby e potentati di vario genere: l’Economist disegna Renzi con il gelato ma il problema è che non possono più vederci, come in passato, con il cappello in mano.
Sul tavolo del vertice di Bruxelles c’è la proposta di avere più
flessibilità sui conti, con un sistema che consenta di fissare le
riforme più importanti per il Continente e premiando con incentivi i
paesi che riescono ad approvarle.
In tale contesto il disegno di politica economica del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è fortemente in sintonia con le linee guida avanzate dalla presidenza italiana dell’Europa. Riforme strutturali, dice quindi Draghi. E le riforme strutturali sono l’agenda del governo italiano. Lavoro, giustizia, fisco, scuola, competitività: dipendono da noi, non da Draghi o dalla Merkel. O li risolviamo noi, o non li risolve nessuno.
In tale contesto il disegno di politica economica del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è fortemente in sintonia con le linee guida avanzate dalla presidenza italiana dell’Europa. Riforme strutturali, dice quindi Draghi. E le riforme strutturali sono l’agenda del governo italiano. Lavoro, giustizia, fisco, scuola, competitività: dipendono da noi, non da Draghi o dalla Merkel. O li risolviamo noi, o non li risolve nessuno.
Ho cominciato con Cassandra, finisco con la generazione Telemaco
citata da Renzi all’inizio del semestre a guida italiana. «Noi non
vediamo il grande frutto dei nostri padri come un dono dato per sempre,
ma come una conquista da rinnovare giorno dopo giorno», disse il premier
a Bruxelles.
Ecco quei giorni sono arrivati, ora dobbiamo dimostrare di essere in
grado di superare una crisi epocale e di contribuire ad una nuova
stagione di crescita dell’Europa, all’altezza della sua storia.
....notiziona di fine estate...
Bersani torna a guidare la minoranza del Pd. La ruota può attendere. Alla Festa dell'Unità di Bologna l'ex segretario riprende in mano l'alternativa a Renzi dentro il partito. E mena fendenti verso palazzo Chigi sulla politica economica, le riforme istituzionali, le primarie.
europa 30 agosto
La metafora del gelato
Mario Lavia
Europa
Renzi ha dato una risposta umana, politica e sottilmente
nazionalista all'Economist, dicendo che l'Italia non si lascia prendere
in giro
È tipico di un certo modo di essere leader quello di rizzarsi in
piedi baldanzoso proprio nel momento di massima difficoltà. In questo
senso ieri Renzi ha fatto Renzi, più che mai. In una giornata nata sotto
i peggiori auspici – la brutta figura sul rinvio del tema-scuola, i
dati Istat sulla deflazione e sulla disoccupazione – il premier è parso
caricatissimo, a partire dalla scenetta inedita e non raffinatissima nel
cortile di palazzo Chigi.
Come interpretarla, quella gag del gelato in mano per sfottere
l’Economist e la sua copertina con Matteo-ragazzino sulla barchetta di
carta? Come una replica – umana, politica e chissà se anche sottilmente
nazionalistica – a voler dire: l’Italia non si lascia prendere in giro.
È un po’ un suo nervo scoperto, quello della suscettibilità nei
confronti dell’Europa supponente che chiede compiti a casa al parente
povero. Istintivamente, Renzi non ci sta. Razionalmente, poi, capisce
che dopo le scenette quei compiti bisogna farli per davvero e non – come
dice lui stesso – perché ce lo chiede l’Europa ma perché la barca
(quella vera, non di carta) sembra imbarcare acqua.
Usciamo dalle metafore. Qui la situazione non migliora. Sei mesi non
potevano bastare a raddrizzarla, e nessuno lo ha mai chiesto. Ma c’è
adesso bisogno di capire dove stiamo andando: questa cosa Renzi,
grandissimo comunicatore, non riesce ancora a comunicarla. La riprova è
che ha scelto l’andatura del maratoneta (hashtag fortunato,
#passodopopasso), segno di una nuova consapevolezza di quanto sia arduo
cambiare le cose.
Allora, per dirla in parole semplici: i provvedimenti di ieri vanno
bene, anzi benissimo (soprattutto il decreto che dimezzerà l’arretrato
della giustizia civile). Speriamo che anche il decreto Sblocca-Italia
dia i risultati auspicati, in termini di investimenti, realizzazioni e
occupazione. Consideriamo dunque i risultati di ieri un piccolo
antipasto di un’azione riformatrice più profonda, che non potrà che
vertere su due aspetti di fondo, riforma del lavoro e aggressione alla
spesa pubblica.
Dopodomani ci sarà un’altra conferenza stampa del premier sui “mille
giorni”, un’agenda riformatrice che dovrebbe avere lo stesso respiro
dell’azione di Schroeder alla fine degli anni Novanta in Germania. Se
Renzi fornirà un ordito di quella qualità, allora sì che potrà
sbeffeggiare chicchessia. Anche senza un gelato in mano.
venerdì 29 agosto 2014
Sblocca-Italia e riforma della giustizia, cos’ha detto Renzi in pillole
Redazione Europa
La conferenza stampa del premier dopo il consiglio dei ministri
Gelato
Il primo ad entrare nel cortile di palazzo Chigi è il carretto dei gelati. Poi arriva anche Matteo Renzi che si fa servire con i suoi gusti preferiti: crema e limone. Dopo la gag nel cortile inizia la conferenza stampa.
Il primo ad entrare nel cortile di palazzo Chigi è il carretto dei gelati. Poi arriva anche Matteo Renzi che si fa servire con i suoi gusti preferiti: crema e limone. Dopo la gag nel cortile inizia la conferenza stampa.
Passo dopo passo
«Bisogna uscire dall’idea – spiega il premier – che basti una legge per cambiare il paese. Per cambiare il paese servono le persone e un lavoro puntuale. “Passo dopo passo” sarà il claim di tutti i mille giorni e il riferimento che troverete da lunedì sul sito dedicato».
«Bisogna uscire dall’idea – spiega il premier – che basti una legge per cambiare il paese. Per cambiare il paese servono le persone e un lavoro puntuale. “Passo dopo passo” sarà il claim di tutti i mille giorni e il riferimento che troverete da lunedì sul sito dedicato».
Grandi opere, 10 miliardi in 12 mesi
«Nei prossimi 12 mesi 10 miliardi saranno destinati a sbloccare le opere», ha detto il premier Matteo Renzi spiegando che la Napoli-Bari e la Palermo-Messina partiranno nel 2015, con due anni d’anticipo.
«Nei prossimi 12 mesi 10 miliardi saranno destinati a sbloccare le opere», ha detto il premier Matteo Renzi spiegando che la Napoli-Bari e la Palermo-Messina partiranno nel 2015, con due anni d’anticipo.
Gasdotto
Il 20 settembre sarò a Baku per il via libera al gasdotto Tap che oggi per la Valutazione d’Impatto Ambientale e per la norma del Dl è definitivamente sbloccato, ha spiegato il premier.
Il 20 settembre sarò a Baku per il via libera al gasdotto Tap che oggi per la Valutazione d’Impatto Ambientale e per la norma del Dl è definitivamente sbloccato, ha spiegato il premier.
Riforma della scuola
La riforma della scuola «è pronta» e sarà presentata mercoledì, non è stata presentata oggi «per evitare un eccesso di carne al fuoco», ha spigato Renzi.
La riforma della scuola «è pronta» e sarà presentata mercoledì, non è stata presentata oggi «per evitare un eccesso di carne al fuoco», ha spigato Renzi.
Riforma della giustizia
Una vera e propria “rivoluzione”, che passa dal dimezzamento dell’arretrato della giustizia civile, dalle nuove norme sul falso in bilancio e sulla prescrizione, alle norme sulle responsabilità civile dei magistrati secondo il principio di “chi sbaglia paga”, fino alla delega sulle intercettazioni.
Una vera e propria “rivoluzione”, che passa dal dimezzamento dell’arretrato della giustizia civile, dalle nuove norme sul falso in bilancio e sulla prescrizione, alle norme sulle responsabilità civile dei magistrati secondo il principio di “chi sbaglia paga”, fino alla delega sulle intercettazioni.
Vertice sulla crescita
La presidenza italiana «si incaricherà di organizzare per il 6 ottobre un appuntamento, un vertice ad hoc, per discutere della crescita. L’Italia ha le sue cose da fare e le sta facendo, ma la stagnazione dell’Europa si affronta con una strategia forte».
La presidenza italiana «si incaricherà di organizzare per il 6 ottobre un appuntamento, un vertice ad hoc, per discutere della crescita. L’Italia ha le sue cose da fare e le sta facendo, ma la stagnazione dell’Europa si affronta con una strategia forte».
«L’Italia conferma tutti i propri impegni, come detto da Padoan, in
primo luogo il 3% – ha sottolineato il presidente – Noi rispettiamo il
Patto, ma il Patto si chiama di stabilità e crescita. Non mettiamo a
rischio la stabilità, ma guardiamo anche alla crescita», ha ribadito. E
«il piano da 300 miliardi di Juncker è significativo e importante, lo
prendo terribilmente sul serio. Il 6 ottobre parleremo di questo.
Non siamo in una battaglia contro l’Europa, né chiediamo qualcosa per
noi. In questi anni l’Italia non ha mai chiesto qualcosa all’Europa, ma
ha dato più di quanto ha ricevuto. In parte per regole del gioco, in
parte per incapacità nostra. L’Europa non ha salvato l’Italia, ci siamo
salvati da soli».
Disoccupazione
Il dato su posti di lavoro «colpisce», «oggi questo dato è molto preoccupante», ha spiegato Renzi, ma «personalmente non credo che i posti di lavoro si creino per decreto. Ecco perché dico che nonostante le difficoltà e le tensioni in Europa, io sono certo che l’Italia è in condizioni di uscire dalla crisi e sono pronto a scommettere su incentivare il salario ai cittadini non togliere».
Il dato su posti di lavoro «colpisce», «oggi questo dato è molto preoccupante», ha spiegato Renzi, ma «personalmente non credo che i posti di lavoro si creino per decreto. Ecco perché dico che nonostante le difficoltà e le tensioni in Europa, io sono certo che l’Italia è in condizioni di uscire dalla crisi e sono pronto a scommettere su incentivare il salario ai cittadini non togliere».
Nessun contrasto con i ministri
«Non c’è nessun contrasto con nessun ministro. Ho letto che avrei litigato con tutti i ministri, ho letto che avrei litigato anche con Lotti e lì c’è stata la standing ovation – ha detto il premier – Semplicemente abbiamo fatto una riunione del Pd senza il ministro Giannini, è vero è stata fatta a palazzo Chigi ma ero impegnato e non ho creduto di dover muovere la scorta per andare al Nazareno. E non mi pare che il ministro Giannini sia iscritto al Pd. Non c’è alcuna tensione con i ministri, la proposta sulla scuola è sostanzialmente pronta».
«Non c’è nessun contrasto con nessun ministro. Ho letto che avrei litigato con tutti i ministri, ho letto che avrei litigato anche con Lotti e lì c’è stata la standing ovation – ha detto il premier – Semplicemente abbiamo fatto una riunione del Pd senza il ministro Giannini, è vero è stata fatta a palazzo Chigi ma ero impegnato e non ho creduto di dover muovere la scorta per andare al Nazareno. E non mi pare che il ministro Giannini sia iscritto al Pd. Non c’è alcuna tensione con i ministri, la proposta sulla scuola è sostanzialmente pronta».
Il rischio delle alte aspettative
Mario Lavia
Europa
Chi per giorni ha letto che oggi il consiglio dei ministri varerà
“la” riforma della scuola, “la” riforma della giustizia e che si
sbloccheranno “le” grandi opere, magari stasera resterà un po’ deluso
La spiacevole sensazione di queste ore è che alla fine, per
usare un’espressione non bella e abusatissima, la montagna partorirà il
topolino. Non è così, ma il fatto è che ogni riunione del governo viene
caricata da un’attesa messianica – le famose “ore decisive” che tanto
piacciono ai giornali – come se il consiglio dei ministri fosse ogni
volta chiamato a cambiare la faccia dell’Italia. Naturalmente non può
essere così.
D’altra parte il presidente del consiglio comunica al paese la
propria impazienza e gli assicura massima velocità, generando in questo
modo la grande illusione del tutto e subito. Poi, lo stesso Renzi deve
spiegare che si tratta di linee guida, di un primo passo, che i
provvedimenti verranno dopo.
Così, chi per giorni ha letto che oggi il consiglio dei ministri
varerà “la” riforma della scuola, – che invece slitta – “la” riforma
della giustizia e che si sbloccheranno “le” grandi opere, magari stasera
resterà un po’ deluso: e dovrà fare un supplemento di riflessione per
capire che queste riforme sono solo partite, non ancora arrivate.
La verità è che in questo paese farle davvero, le riforme, è
operazione lunga, difficile. Non basta la determinazione del premier
(che non manca, se sono vere le indiscrezioni che lo danno impegnato a
correggere di suo pugno ciascun provvedimento). Però su temi
fondamentali (peccato che la scuola debba attendere), si parte. Si parte
adesso. E siccome davanti a sé il governo ha un tempo lungo, è
probabile che si arrivi. E scusate se è poco.
Dagli affari di famiglia alla lite con la polizia l’ultima stagione del ras della Sapienza
SEBASTIANO MESSINA
La Repubblica - 29/8/14
Il personaggio L’irresistibile ascesa
di Luigi Frati, figlio di un minatore diventato il più potente (e
discusso) rettore d’Italia. Fino alla denuncia della questura di
Roma
Non sappiamo ancora se sarà ricordato
come il difensore della libertà di volantinaggio — per aver
tentato di sottrarre ai poliziotti quel rumeno che per dieci euro
distribuiva volantini anonimi contro un professore che ha osato
candidarsi a prendere il suo posto — o come il primo rettore che ha
gridato «polizia di merda!» in un commissariato. Quel che è certo
è che Luigi Frati, «fino al 31 ottobre rettore della Sapienza»,
come lui si è firmato scrivendo al questore per sottolineare chi
stavano denunciando, dovrà difendersi dalle accuse di abuso
d’ufficio, resistenza a pubblico ufficiale e calunnia.
Non se l’era immaginata così la sua
ultima stagione, il figlio di un minatore che è diventato il più
potente cattedratico d’Italia, per vent’anni preside e dominus
assoluto della facoltà di Medicina e per altri dieci — prima come
pro-rettore vicario e poi come rettore — al comando della Sapienza,
restando inchiodato alla sua poltrona persino dopo il pensionamento.
Finora aveva sempre pensato a salire sempre più in alto, dal giorno
in cui suo padre lo portò con sé in miniera, come apprendista:
«Avevo 14 anni e mi occupavo di dare l’acqua ai minatori »
raccontò una volta al Messaggero . «Un paio di mesi mi sono
bastati. Ho scoperto l’esistenza dell’ascensore sociale: o vai
giù o vai su».
E lui l’ascensore l’ha preso al
piano giusto, quello della politica. A 36 anni, grazie al sindacato
cislino Federscuola, si fa nominare — lui che è solo un docente
incaricato — nel Consiglio universitario nazionale. Ci rimarrà per
21 anni («Ho messo in cattedra più di 200 professori », ama
vantarsi) mentre il suo ascensore comincia a salire. Primo piano, la
cattedra di Patologia generale alla Sapienza. Secondo piano, la
vicepresidenza della Commissione unica del farmaco. Terzo piano, la
presidenza del Consiglio superiore di Sanità. Quarto piano, il posto
di primario di Oncologia.
Arrivato al quinto piano — preside
della facoltà di Medicina — Frati mette radici e ci rimane per
vent’anni esatti. Risulta abilissimo nella moltiplicazione delle
cattedre: con lui il Policlinico arriva ad avere un primario ogni sei
pazienti e un consiglio di facoltà più affollato della Camera dei
deputati: 700 membri.
Già che c’è, Frati fa prendere
l’ascensore anche alla moglie, Luciana Rita Angeletti, insegnante
di lettere in un liceo: per lei c’è una cattedra di Storia della
Medicina. Poi fa salire anche la figlia maggiore, Paola. Lei,
discoletta, aveva voluto laurearsi in Giurisprudenza, ma il
comprensivo papà non si è arreso: oggi è ordinaria di Medicina
legale. Restava Giacomo, il secondogenito. Poteva il padre la-
sciarlo fuori dall’ascensore? Certo che no. Anzi, proprio per lui
Frati — che intanto nel 2008 è salito di un altro piano, il sesto,
quello di rettore dell’Università — realizza il suo capolavoro:
accompagnarlo fino alla poltrona di primario prima che compia 37
anni.
L’impresa merita di essere
raccontata. Il giovane Giacomo vuol fare il cardiochirurgo. E
naturalmente ci riesce. Ricercatore a 28 anni, diventa professore
associato a 31. Vince il concorso con una prova (orale) sui trapianti
cardiaci, davanti a una commissione composta da due igienisti e da
tre odontoiatri. A quel punto il premuroso padre riesca a ottenere
l’apertura di un centro di cardiochirurgia a Latina (costo: 32
milioni) dove il giovanotto diventa aiuto primario. L’esperimento
non riesce e il centro verrà chiuso, dopo la scoperta che la
mortalità era pari a due volte e mezza la media nazionale.
Ma intanto Giacomo ha vinto anche il
concorso a ordinario, e il padre lo chiama nella sua facoltà. Con un
tempismo straordinario: solo quattro giorni prima che scattino le
norme antinepotismo, con il divieto tassativo di assegnare cattedre
ai parenti fino al quarto grado. Ora si tratta di trovargli il posto
di primario. Antonio Capparelli, nominato un mese prima da Frati
direttore generale del Policlinico, crea dal nulla un reparto ad
personam: «Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari
applicare alle malattie cardio-vascolari». E chi nomina come
primario? Giacomo Frati. L’operazione è così clamorosa che la
procura apre un’inchiesta, su quel reparto «di fatto voluto dal
rettore Luigi Frati per favorire il figlio Giacomo», scrivono i pm
Pioletti e Caporale.
Quella però era solo la penultima
tappa, perché il rettore vuole per il suo erede il primariato di
Cardiochirurgia. Ce ne sarebbero due, ma sono occupati. Come si fa a
liberare quei posti? Ci pensa ancora una volta papà. Prima sospende
il primario del Policlinico, Michele Toscano, trascinandolo per
quindici volte davanti al Tar, poi denuncia — facendolo persino
arrestare — quello del Sant’Andrea, Riccardo Sinatra, accusandolo
nientemeno che di aver fatto fare turni di 24 ore agli
specializzandi. Il Tar gli dà torto, e i due primari sono ancora al
loro posto. Ma Frati non si arrende: l’ascensore del figlio deve
fare un altro piano. E lui, come ha scritto al questore, è «fino al
31 ottobre rettore della Sapienza ».
giovedì 28 agosto 2014
Paletti per le cause d’appello, pena concordata a chi confessa e reati estinti a pagamento.
Corriere della Sera 28/08/14
Virginia Piccolillo
Un decreto legge per smaltire
l’arretrato della giustizia civile. Una delega al governo per
riformarla. E diversi disegni di legge sulla giustizia penale. Ecco
il pacchetto giustizia che oggi arriverà in preconsiglio dei
ministri. Dalle bozze le principali novità. Paletti alla possibilità
di fare appello. Pena concordata fino ad otto anni per chi confessa.
Reati estinti a pagamento. E poi i punti più caldi. Come le
limitazioni alle intercettazioni che dovrebbero essere oggetto di una
delega.
Nuovo processo civile
È il fiore all’occhiello
del governo. L’obiettivo dichiarato è dimezzare entro mille giorni
l’arretrato e garantire il processo civile in primo grado in un
anno anziché tre. Si prevede un decreto legge per ridurre
l’arretrato, una sorta di facilitazione per chi vuole passare ad
arbitrati. Ma il punto di eccellenza dell’intero pacchetto riforme
è il ddl delega per gli interventi sul processo civile, basato sul
lavoro della commissione Berruti. Ristrutturazione del primo grado
con introduzione del potere del giudice di suggerire alla prima
udienza di trattazione, una soluzione diversa dalla sentenza. Forte
implementazione del tribunale delle imprese assistito anche da
esperti di economia del luogo, introduzione del tribunale della
famiglia e della persona.
Responsabilità dei giudici
Il
ministro Andrea Orlando, pensa a un disegno di legge, ma in
preconsiglio oggi potrebbe anche arrivare un ddl delega. Prevede la
responsabilità indiretta dei magistrati. A pagare i danni di un
errore è lo Stato, ma il giudice colpevole deve risarcirlo fino alla
metà dello stipendio di un anno. Soluzione che non soddisfa Forza
Italia: vorrebbe che il risarcimento fosse commisurato al
danno.
Bonus prescrizione
Prima della legge Cirielli
l’estinzione del reato era prevista per fasce di gravità. Ora è
per tutti il massimo della pena aumentata di un quarto e spesso
arriva prima della condanna definitiva. Il ddl in arrivo lascia
l’attuale conteggio, ma congela i tempi all’arrivo della prima
condanna e per soli due anni. L’appello dovrà essere fatto in quei
tempi o il reato si estinguerà. In caso di ulteriore condanna c’è
un altro anno di bonus di sospensione per arrivare al termine del
terzo grado in Cassazione. In caso di assoluzione il bonus di
sospensione di due anni viene riassorbito nel conteggio. È un
tentativo di mediazione: l’intenzione originaria era di tornare
alle fasce e sospendere i tempi dopo il primo rinvio a giudizio.
L’approvazione di questo provvedimento è però a forte rischio.
Forza Italia è contraria e all’interno della maggioranza Ncd
chiede maggiori obblighi per i giudici di celebrare appello e
Cassazione nei tre anni, pena la responsabilità disciplinare.
Il
nodo intercettazioni
Ufficialmente non sarà sul tavolo. Come le
due norme sul Csm e forse la modifica della geografia giudiziaria. Ma
se ne discuterà. L’accordo su questo punto cardine della
trattativa non è stato trovato. L’ipotesi di limitarne la
pubblicazione, ma non l’uso non è piaciuta Forza Italia che
vorrebbe tornare alla legge Mastella.
Il ministro Orlando,
valuta l’ipotesi di un disegno di legge delega che preveda norme a
tutela della riservatezza. Ncd è d’accordo e propone l’audizione
dei direttori delle testate giornalistiche nell’ambito della
attività di delega.
Limiti a impugnazioni
L’appello
guidato è un altro punto della discordia. L’ipotesi è un ddl che
limiti il ricorso al secondo grado di giudizio. Non ci si potrà
opporre alla prima sentenza senza specificare i motivi del ricorso,
che, altrimenti, sarà inammissibile. La Corte d’appello dovrà
rivedere solo quei punti. In caso siano doppie condanne o assoluzioni
non si potrà fare l’impugnazione per vizio di motivazione. Si
potrà fare ricorso in Cassazione solo per violazioni di legge. Non
piace all’Oua, ai penalisti, a Forza Italia e a Ncd.
Pago
ed estinguo
Si chiama giustizia riparativa. In un ddl si prevede
l’estinzione del reato per chi, in caso di delitti minori contro il
patrimonio o a querela di parte, paghi e ripari il danno prima del
dibattimento. Ncd è favorevole.
Confesso e concordo
Ora
si può patteggiare una pena per reati fino a 3 anni. L’ipotesi è
un ddl che consenta di concordare una pena fino a 8 anni a patto di
confessare. Non c’è appello. Solo ricorso in Cassazione per vizi
di forma. Ncd scettica per l’applicazione a reati di mafia. Forza
Italia è contraria.
Falso bilancio e corruzione
Secondo
la proposta del ministro, contenuta in un altro ddl, il falso in
bilancio torna reato punito da 2 a 6 anni. Procedibile a querela nei
casi di piccole società. In un altro ddl si prevedono norme contro
la corruzione, inclusa la possibilità di intercettazioni più
ampie.
Com’è giusto, nasce in Emilia il Pd 2.0
Stefano Menichini
Europa
Bonaccini contro Richetti, due amici e due renziani nelle primarie
per la candidatura alla Regione. Dove è sempre piaciuto il rinnovamento
nella continuità, ma è arrivato il tempo che il primo prevalga sulla
seconda. Chiunque vinca.
Ne hanno parlato per mesi e su un punto sembravano essere
d’accordo: la selezione del candidato del Pd al governo dell’Emilia
Romagna non avrebbe potuto e dovuto risolversi con uno scontro
fratricida. Non per buonismo, ma perché sarebbe stato difficile far
capire agli elettori le differenze politiche tra Stefano Bonaccini e
Matteo Richetti, amici personali, entrambi del Modenese, personaggi
chiave del momento topico dell’avvento di Renzi alla guida del Pd.
Invece finirà proprio così, perché la politica è sanamente fatta
anche del confronto fra ambizioni personali di uomini e donne che hanno
diritto a coltivare e perseguire i propri sogni. E sia Bonaccini che
Richetti sono cresciuti nel consiglio regionale che ora vorrebbero
guidare. Entrambi hanno contribuito prima ai successi della lunga epoca
Errani e poi al rovesciamento di quel paradigma, almeno a livello
nazionale. Negli anni ruggenti delle Leopolde, Richetti era “l’emiliano”
per definizione, tra i pochissimi, della squadra di Renzi. Il quale
però vinse in anticipo le primarie del dicembre 2013 nell’estate
precedente, quando Bonaccini (dopo essersi staccato da Bersani durante
le votazioni drammatiche sul Quirinale) lo introduceva nelle Feste nella
sua veste di segretario regionale, da Carpi a Bosco Albergati a Borgo
Sisa vicino Forlì, in autentici, sbalorditivi e già risolutivi bagni di
popolo.
I tentativi di mediazione su una candidatura “unitaria” non sono
riusciti. Il motivo è nel Pd medesimo: un partito che è andato ormai
troppo oltre, sulla contendibilità interna, perché si possano escogitare
facili soluzioni condivise, a meno che tutti (ma proprio tutti) gli
attori sulla scena non vi si ritrovino.
In questo caso, anche con la candidatura “unitaria” di Daniele Manca
ci sarebbero stati comunque altri nomi in corsa, e poi non sarebbe
giusto dimenticare l’oggetto vero della contesa. Che non è una posizione
più o meno avanzata nella galassia renziana (come invece la vicenda
verrà in parte raccontata), bensì il governo dell’Emilia Romagna: cioè
una Regione chiave non (solo) per il Pd ma per il presente e il futuro
dell’Italia. Un luogo e un partito geneticamente propensi al famoso
“rinnovamento nella continuità”, dove evidentemente è arrivato il
momento di far prevalere il primo sulla seconda, come dimostrano anche i
risultati elettorali di Cinquestelle.
In questo senso non è male che il confronto sia tra due renziani.
Sì, è vero, Richetti giocherà la carta dell’antemarcia, oltre tutto
non essendo un ex comunista (è cresciuto alla scuola di Pierluigi
Castagnetti). Mentre Bonaccini si farà forte del lavoro svolto da
segretario del partito, del successo della fusione tra il Pd “di prima” e
il Pd “di oggi”. Il primo parlerà più da rottamatore, sul secondo
confluiranno forse i famosi apparati ex bersaniani. Ma entrambi sono
stati protagonisti di una rottura a livello nazionale che a livello
regionale non s’è mai effettivamente completata (secondo Richetti,
neanche iniziata), e di cui si sente gran bisogno: dunque sono obbligati
a competere su chi sia più credibile nell’innovazione, non nella
conservazione.
Il gusto giornalistico si appunterà sulla prima grande vera divisione
nel mondo di Renzi. Probabilmente sarà proprio il segretario-premier a
spegnere questa malizia, per quanto avesse sperato in un’altra
soluzione. Perché in realtà da oggi in poi ogni competizione interna al
Pd sarà “tra renziani”, anche se con storie diverse alle spalle, e sarà
giusto risolverla con primarie aperte agli elettori.
Se per esempio Bonaccini dovesse prevalere, e farlo dopo una campagna
all’insegna della novità, sarebbe impossibile parlare di una vendetta
della vecchia nomenklatura: quella stagione è ormai passata, il
problema casomai è proprio chiuderla definitivamente anche a livello
territoriale, e farlo in una regione molto riformista ma mica tanto
rivoluzionaria.
Richetti sente intorno a sé entusiasmo, non si dà per battuto anche
se riconosce di partire in svantaggio. In ogni caso per lui queste
primarie saranno un importante momento di crescita, confermandolo oltre
tutto come un renziano molto autonomo da Renzi (come è sempre stato, a
prescindere dalle voci su incarichi nazionali promessi o negati).
Bonaccini sa di dover evitare l’effetto macchina del tempo, come se
si girasse un remake alle primarie Renzi-Bersani. Dovrà guardarsi da
candidati terzi come Palma Costi. Come per il suo amico-rivale, ricevere
la staffetta da Vasco Errani è sempre stato un progetto di vita, solo
che per farcela dovrà mettere nelle primarie tutto il suo “renzismo”,
con l’obiettivo di divenire una delle colonne nazionali del sistema di
governo del Pd.
Per vedere chi vincerà torneremo lì dove il rottamatore cominciò a
tramutarsi in segretario. Nella culla del Pci dove il Pci
definitivamente morì. Nella regione che sempre ha deciso le sorti della
sinistra italiana. Sarà in Emilia Romagna che assisteremo alla prima
conta interna del Pd 2.0.
mercoledì 27 agosto 2014
“Duemila morti, non lasciate sola l’Italia”
La Stampa 27/08/2014
Guido Ruotolo
L’Onu: 1600 vittime solo da giugno.
“Operazione Mare Nostrum? Positiva, adesso serve un’azione Ue”
Una strage, una ecatombe nel Canale di
Sicilia. Quasi duemila morti dal primo gennaio ad oggi. L’appello
dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite è di «non
lasciare sola» l’Italia. Il portavoce Unhcr, Melissa Fleming, da
Ginevra si rivolge all’Europa: «Positiva l’operazione Mare
Nostrum, che ha consentito di salvare migliaia di vite umane, ma ora
la drammatica situazione ai confini marittimi dell’Europa, richiede
un’azione europea urgente e concertata».
I dati delle Nazioni Unite sono
drammatici: «1.889 vittime in otto mesi». Nel dossier presentato a
Ginevra si prende atto che gli ultimi giorni sono stati i peggiori di
quest’anno per le persone che affrontano la traversata del
Mediterraneo per raggiungere l’Europa: almeno tre navi si sono
capovolte o sono affondate e si contano più di 300 vittime.
In realtà i morti potrebbero essere di
più. Racconta il comandante della nave Della Marina militare,
Fenice, il capitano di fregata Carlo Sciugliuzzo, che i superstiti
del naufragio di domenica sera hanno raccontato che i morti sono ben
oltre quei 24 corpi recuperati: «Secondo quanto hanno raccontato sul
barcone viaggiavano oltre 500 migranti, se a questa cifra sottraiamo
i 364 sopravvissuti e i 24 cadaveri già recuperati significa che
mancherebbero ancora all’appello oltre cento dispersi».
Dunque, per l’Unhcr quasi duemila
morti negli ultimi otto mesi, 1.600 solo dall’inizio di giugno.
Eppure le condizioni del mare sono buone e proprio per questo sono
migliaia gli arrivi in queste ore. Dal primo gennaio a ieri mattina,
erano 109.128 (di questi solo 71.877 salvati da Mare Nostrum).
Nonostante il mare calmo, nonostante
Mare Nostrum, le imbarcazioni continuano ad affondare. Impressionanti
le immagini che arrivano dalla spiaggia di Tripoli con decine di
corpi senza vita sulla battigia. Quei corpi - nel naufragio di
venerdì scorso a poche miglia dalla costa libica sarebbero morte 250
persone - sono testimonianza crudele di quella guerra, per dirla con
l’Osservatore Romano, che si sta combattendo nel Canale di Sicilia.
Sabato sera, a 20 miglia dalla costa libica e a 140 da Lampedusa,
sono stati recuperati 18 corpi e salvati 73 disperati. E poi domenica
sera, con i 24 corpi recuperati e i 100 che mancano all’appello.
Mentre a Roma si cerca una proposta che
convinca l’Europa a impegnarsi in prima linea, così come chiedono
le Nazioni Unite, si guarda anche alla situazione fuori controllo
della Libia, principale porto di partenza delle imbarcazioni cariche
di uomini, donne e bambini. Le previsioni sono ancora più fosche,
visto che l’instabilità di quel paese è destinata a peggiorare.
Per il momento, dunque, non è
praticabile alcuna ipotesi di bloccare le partenze in Libia, di
accogliere in loco i rifugiati in centri gestiti dalle Nazioni unite
dove raccogliere le domande dei richiedenti asilo. E neppure si può
pensare che questi centri si aprano in Tunisia o Egitto, sud-Sudan,
Ciad o Niger, i paesi confinanti con la Libia. Del resto nell’elenco
delle vittime dei viaggi della speranza, si dovrebbero aggiungere
anche tutti quei disperati che sono morti nella traversata del
deserto libico. Negli anni di Gheddafi, i reparti speciali ne hanno
seppelliti a centinaia. Tra Kufra e il confine con il Ciad c’erano
accampamenti di migliaia di africani che cercavano di arrivare sulla
costa. Quelle città fantasma oggi sono diverse, nate anche più a
sud, sull’asse Sebha-Tripoli.
Si muore in mare e nel deserto mentre
le milizie armate stanno portando il Paese alla disgregazione. Non
solo Cirenaica da una parte, Tripolitania dall’altra. È l’intero
paese spaccato in tante microrealtà.
Ma accanto ai morti ci sono i vivi che
vengono salvati, che raggiungono l’Europa, che devono essere
protetti, sfamati. Europa solidale è avara. I Paesi si guardano in
cagnesco. Quelli che confinano con noi, ci restituiscono come se
fossero degli evasi, gli eritrei piuttosto che i siriani che vengono
pizzicati mentre passano la frontiera. L’Europa della libera
circolazione delle merci non tollera che venga violata Dublino 3,
l’intesa che stabilisce che la protezione umanitaria venga
garantita dai paesi dove entrano i rifugiati.
Ennesima tregua tra Israele e Hamas i Segnali che possa durare davvero.
Corriere della Sera 27/08/14
Davide Frattini
Al cessate il fuoco numero 12, Hamas dà
il via libera per celebrazioni nelle strade di Gaza, spari di
kalashnikov in aria e colpi di clacson dalle auto in corteo. È il
segno che questa volta la tregua potrebbe resistere, è il simbolo di
quanto l’organizzazione fondamentalista controlli le informazioni
che vengono veicolate ai palestinesi di Gaza.
L’intesa
ottenuta dai mediatori egiziani — per quel che emerge — non
sembra diversa dalle concessioni che i capi del movimento avrebbero
potuto ottenere una settimana fa o addirittura dopo una settimana di
conflitto. Senza gli oltre duemila morti e la distruzione massiccia,
intensificata in questi ultimi giorni. Eppure bisogna gridare
vittoria, perché adesso è questione di sopravvivenza politica, dopo
aver dimostrato di poter resistere (almeno per cinquanta giorni)
all’esercito israeliano.
La Striscia ha bisogno di aiuti
urgenti, la ricostruzione deve cominciare al più presto (di questo
parla per ora l’accordo: una riapertura dei valichi che permetta il
flusso di materiali). Abu Mazen, il presidente palestinese, vuole
essere incaricato di controllare quel che entra e quanto in fretta, è
il ruolo che i generali egiziani stanno provando a garantirgli, una
mossa per ridargli — in parte — potere a Gaza, da dove i
miliziani fondamentalisti lo hanno estromesso sette anni
fa.
Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, ha ripetuto fin
dalle prime ore del conflitto che la formula per uscirne sarebbe
stata «la calma per la calma». Per questo gli israeliani hanno
accettato i tentativi successivi — e falliti in successione — per
fermare gli scontri ed è per questo che l’aviazione non riprenderà
i bombardamenti se i lanci di razzi da Gaza non ripartiranno. Adesso
il premier dovrà guardarsi da altri colpi, quelli politici, che i
ministri del suo governo hanno cominciato a sparare contro di lui
durante la gestione della guerra.
Gli analisti già parlano di
elezioni anticipate.
Il contropiede del leader: tratto io, sarò giudicato su questo.
Corriere della Sera 27/08/14
Maria Teresa Meli
«Dobbiamo essere protagonisti nel
mondo globalizzato»: questo è il mantra di Matteo Renzi. Lo ripete
a ogni piè sospinto. Lo ha ripetuto anche ieri quando, come si era
ripromesso, ha avocato a sé il «pacchetto scuola». «Una scuola —
scandice il premier — dove si impara sul serio». E ancora: «La
vera sfida è la scuola». Per questa ragione il presidente del
Consiglio ha in programma un «piano d’ascolto». Non solo, sulla
scuola l’inquilino di Palazzo Chigi alza la posta: «Mi
giudicherete per quello che farò in questo campo».
E in quel —
non facile campo — il premier ieri si è esercitato. Renzi sa già
che i sindacati si faranno sentire, ma non se ne preoccupa più di
tanto. «Vedrete — ha detto a chi lo ha visto ieri — che avremo
dei problemi, d’altra parte ogni innovazione comporta delle grane.
Mi auguro solo che i sindacati cambino verso anche loro. E capiscano
che in ballo è il futuro dell’Italia, quindi il futuro di tutti.
Ci giochiamo ogni cosa in questo momento». Dopodiché la sua «frase
d’ordine» è stata questa: «Sulla scuola tratto direttamente io».
Della serie: è una priorità, il presidente del Consiglio avoca a sé
la pratica.
Dunque Renzi è alle prese con la scuola: «Le linee
guida che illustreremo il 29 saranno molto importanti». E su quel
tema cerca - con successo di far puntare l’attenzione dei media, ma
il presidente del Consiglio sa benissimo che l’Europa si aspetta
anche altro da lui. Quel che deve portare all’Unione Europea —
non il 30, ma in un futuro un po’ meno immediato — è il Jobs
Act. Con il contorno della riforma fiscale.
E sulla riforma del
lavoro avrà di nuovo contro Susanna Camusso. La qual cosa non gli fa
paura: «Se i sindacati restano fermi al passato, l’Italia non
riparte». Già, Renzi è convinto che la sinistra debba «uscire
dalla sindrome del no» e, anzi, farsi protagonista del
«cambiamento». Per questa ragione moltiplica le consultazioni sui
disegni di legge che verranno, scuola inclusa.
Sul contenzioso
prossimo futuro con il sindacato il presidente del Consiglio ha le
idee chiare: «Non possiamo trattare all’infinito, a un certo punto
verrà il tempo delle decisioni e dobbiamo essere pronti per
quell’appuntamento. Altrimenti si finisce per cedere su tutto. Io
non posso farmi ricattare. Basta con la logica del “no” e del
piagnisteo. Dobbiamo scatenare le energie dell’Italia, dobbiamo
mostrarci per quello che siamo: il governo del fare».
Insomma,
l’idea del presidente del Consiglio è sempre la stessa: «Noi
siamo disponibili a trattare con tutti», spiega ai suoi Renzi. Che
non vuole alzare nessun ponte levatoio, ma che sa che sul Jobs Act si
gioca la credibilità in Europa. Ed è per questa ragione che
vorrebbe approvarlo prima del tempo che si era dato. Pubblicamente
aveva fissato come scadenza la fine dell’anno. Ora punta a mandare
tutto in porto «entro l’autunno». Operazione quanto mai
complicata ma il premier dice e ripete: «Massima disponibilità a
trattare anche con i sindacati, verso cui non c’è nessuna ostilità
preconcetta e nessun pregiudizio. Ma Camusso, Bonanni e gli altri
devono sapere che il presupposto da cui noi partiamo per trattare è
uno e uno solo: l’Italia deve fare le riforme».
Più chiaro
di così. Però per essere ancora più esplicito il presidente del
Consiglio fissa bene i paletti. Che non riguardano solo i sindacati,
ma anche «le burocrazie che fanno resistenza e cercano di ostacolare
la riforma del Paese»: «Non ha più senso chiudersi nella difesa
dei corporativismi. I sindacati, i dirigenti, i burocrati, così come
la classe politica, devono cambiare. Altrimenti, immaginare una
ripartenza è impossibile».
Ed è avendo ben chiaro in testa
questo obiettivo che Matteo Renzi, complice Giorgio Napolitano, ha
superato le diffidenze nei confronti di Mario Draghi. Il quale, a sua
volta, ha preso atto del fatto che, come gli ha spiegato il capo
dello Stato, l’attuale presidente del Consiglio è l’unica ancora
di salvezza per l’Italia.
Così ora l’inquilino di Palazzo
Chigi pronuncia parole che mai e poi mai avrebbe immaginato di poter
profferire: «Non possiamo non dirci draghiani». E, in compenso, il
gran capo della Bce ha deciso di dare una sponda al premier italiano.
Conti in rosso, verranno cancellate subito 1.250 municipalizzate.
Corriere della Sera del 27/08/14
Lorenzo Salvia
Dopo la frenata, la tentazione della
contromossa. Il decreto sblocca Italia rischia di perdere le misure
che hanno bisogno di soldi per partire, come i nuovi incentivi
fiscali sulla casa, per il solito motivo di far quadrare i conti
pubblici. E allora il governo prova a compensare il probabile stop
infilando nel testo un’accelerazione sul taglio delle società
partecipate dagli enti locali. Una misura che ha il pregio di non
costare nulla, anzi di ridurre la spesa pubblica. Anche se è molto
difficile immaginarne gli effetti immediati.
Nel decreto che
venerdì sarà discusso in Consiglio dei ministri potrebbero esserci
non solo le due misure di cui si è già parlato negli ultimi giorni.
La prima è la possibilità per i Comuni di usare l’incasso della
dismissione di partecipate al di fuori del patto di stabilità
interno, che oggi frena gli investimenti anche delle amministrazioni
che hanno la cassa piena. La seconda è il prolungamento
dell’affidamento fino ad un massimo di 22 anni in caso di
quotazione in Borsa. In aggiunta potrebbe entrare nel decreto almeno
un pezzo di quel percorso che dovrebbe far scendere le società dalle
8 mila di adesso a circa mille. Una cura dimagrante in sette mosse
già definita dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli
in uno studio pubblicato sul sito dedicato alla revisione della spesa
pubblica che ieri si è arricchito di nuove tabelle. La prima mossa,
la più semplice, è quella che ha più probabilità di essere
anticipata: la semplice chiusura delle partecipate che esistono
ancora ma già adesso non sono operative ne cancellerebbe dalla mappa
1.250. Altre 800, seconda mossa, sparirebbero estendendo il divieto
di partecipazione nelle aziende che si occupano di servizi senza
rilevanza economica. Poi ci sono le 900 da chiudere fissando una
soglia minima di fatturato e dipendenti, le mille da dismettere
quando la partecipazione è sotto il 10%, le 650 controllate dai
Comuni al di sotto dei 30 mila abitanti. Altre 2.400 sarebbero
tagliate come effetto di una serie di misure più complesse: dalle
modifiche sui servizi a rete, come l’energia e l’acqua, a quelle
sulle delibere per il mantenimento delle partecipazioni già
possedute.
Un vero e proprio disboscamento delle ex
municipalizzate, che lo stesso Cottarelli ha voluto sostenere
pubblicando ieri una serie di tabelle che fotografano la situazione
spesso disastrata dei loro conti. Una bella fetta di queste società
sono in realtà per Cottarelli oggetti non identificati. Sono 1.075
quelle per le quali al commissario non risulta disponibile (per i
motivi più vari) il bilancio 2012, compreso il Maggio musicale
fiorentino, l’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni, e Acea
distribuzione, ramo di una holding quotata. Dalle tabelle viene fuori
che una società su quattro, il 27%, non è redditizia: in termini
tecnici ha un rendimento negativo rispetto al capitale investito. Un
«buco nero», insomma. Ma c’è un ristretto club che riesce a far
peggio e risulta avere un patrimonio negativo o nullo: sono 143,
dalla Fiera di Roma alla Cmv di Venezia, che gestisce il Casinò,
passando per il Cotral, l’azienda di trasporto pubblico del Lazio.
Ci sono anche le aziende che vanno bene, oltre mille hanno un indice
di redditività a due cifre e le eccellenze sono presenti tanto al
Nord come al Sud, con lo Zuccherificio del Molise al primo posto
assoluto. Ma non bisogna pensare solo alle grandi aziende.
Anche
se non si tratta tecnicamente di partecipate, lo studio del
commissario prende in esame anche le farmacie comunali. Oggi sono
1.600, il 9% del totale, con punte del 20% in Toscana. Il documento
non parla esplicitamente di una loro chiusura ma, nella conclusione,
qualche nuvolone scuro sembra addensarsi: «Si noti che il servizio
nei Comuni piccoli o disagiati viene assicurato anche a mezzo di
farmacie private che percepiscono sovvenzioni dal settore pubblico».
Sembra il preludio ad un’altra sforbiciata. L’intervento,
tuttavia, richiede un supplemento di istruttoria e non troverà posto
nel pacchetto di dopodomani.
Nelle ultime bozze, invece, sono
spuntate due norme destinate a far discutere. La prima è contro
quella che a Roma viene chiamata la «maledizione dei coccetti», e
cioè il blocco dei cantieri che di solito segue il ritrovamento di
un reperto archeologico durante gli scavi. L’articolo 12 del testo
dice che il problema va risolto entro 4 mesi: 90 giorni per un
progetto che valorizzi il reperto all’interno dell’opera
pubblica, altri 30 per il parere della Sovrintendenza. Ma il
ministero dei Beni culturali non è d’accordo e la decisione finale
non è stata ancora presa. La seconda misura invece riguarda la Rc
Auto, l’assicurazione sulla responsabilità civile per chi guida.
Il decreto renderebbe possibile l’utilizzo delle telecamere in zone
a traffico limitato e tutor per multare chi non ha l’assicurazione,
grazie all’incrocio immediato di diverse banche dati. Ci aveva già
provato il governo Letta, senza successo. Adesso si torna alla
carica. Palazzo Chigi avverte che le bozze che circolano non sono
attendibili e invita ad aspettare il testo definitivo. Ma sarà
ancora lunga: venerdì il Consiglio dei ministri dovrebbe essere
convocato alle nove di sera. Si gioca in notturna.
«Avanti su tagli e risparmi ma teniamo conto della crisi».
Corriere della Sera 27/08/14
«L’Europa è a un bivio: o
striscia nella deflazione e nella bassa crescita, oppure dà un colpo
di reni e riparte, con le riforme strutturali e un consolidamento di
bilancio “growth friendly”» dice il ministro dell’Economia
Pier Carlo Padoan. Nel corso dell’estate la crisi che colpisce
l’Italia da mesi si è estesa alla zona euro, Francia e Germania
comprese, e questi dati «confermano che in Europa c’è un problema
di crescita, da affrontare con tutti gli strumenti possibili, e a
tutti i livelli di responsabilità, nazionale e comunitaria. La
politica europea, compresa quella monetaria, e quelle nazionali, con
le riforme strutturali e non solo queste, devono sostenersi e
integrarsi a vicenda, per portare la crescita a livelli più elevati.
La situazione attuale, peggiore del previsto, non fa piacere a
nessuno, però richiama l’attenzione sul fatto che c’è bisogno
di un’azione comune. Sono in piena sintonia con il presidente della
Banca centrale europea , Mario Draghi».
Lo ha visto anche lei
quest’estate?
«No, ci siamo sentiti, come ci sentiamo
spesso»
Nel quadro del sistema di sorveglianza europea, le
riforme strutturali e il risanamento dei bilanci, andrebbero
collegate in modo più stretto? Come interpreta le parole di
Draghi?
«Questo è un terreno molto importante, perché è
l’approccio delle nuove regole europee, che mettono l’enfasi
sulle riforme strutturali e il consolidamento fiscale, due fattori
che interagiscono tra di loro. Le riforme richiedono tempo, e magari
hanno costi immediati nel breve periodo anche in termini di bilancio,
ma le riforme migliorano il bilancio pubblico nel lungo periodo,
perché riducono le spese. E poi, e qui mi riferisco a Draghi, in
un’area fortemente integrata come la zona euro, se un Paese
importante fa le riforme ci sono ricadute pure sui Paesi vicini. Se
uno cresce di più perché risolve dei nodi strutturali che fermano
la sua economia, questo va a beneficio di tutti. Di questi fatti
bisognerebbe tener conto in modo esplicito, bisognerebbe avere una
“visione europea” delle strategie di riforma, creando spazio per
un maggior coordinamento delle politiche europee».
In aprile il
governo ha invocato le «circostanze eccezionali», previste dai
Trattati europei, per rinviare il pareggio di bilancio di un anno,
dal 2015 al 2016. Le condizioni rispetto ad allora non sono cambiate,
anzi.
«Il quadro macro della zona euro è peggiorato rispetto a
pochi mesi fa. Sia per quanto riguarda i dati sulla crescita, che per
l’inflazione in continua flessione. È un fenomeno che desta
preoccupazione, e in particolare non aiuta quei Paesi che hanno un
debito alto che deve scendere, come noi. Però le circostanze
particolari che l’Italia ha invocato in primavera sono anche altre,
e le ribadisco.
Noi siamo fortemente impegnati in un piano di
riforme strutturali importanti, che porterà ad un aumento della
crescita e dell’occupazione, ma che naturalmente richiede tempo per
produrre frutti. Questa circostanza vale per noi e per chiunque in
Europa ha la necessità di implementare riforme strutturali».
Si
possono ipotizzare tempi ancora più lunghi per il pareggio di
bilancio?
«Intanto ribadisco ancora una volta che il vincolo 3%
nel rapporto tra il deficit e il Pil sarà assolutamente rispettato.
Vedremo poi come i tempi di raggiungimento del pareggio strutturale
di bilancio saranno modulati. Dobbiamo rivedere al ribasso le
previsioni di crescita del Pil, e quando avremo dati più precisi
capiremo quale sarà il cammino verso l’obiettivo. Sicuramente la
nostra intenzione è quella di continuare nell’aggiustamento di
bilancio».
La legge di Stabilità è alle porte. Il bonus di 80
euro è confermato, ma per il 2015 va coperto. Il Commissario Carlo
Cottarelli ha prodotto molti rapporti, ma di tagli se ne vedono
pochi...
«Alcuni tagli permanenti sono stati già introdotti con
lo stesso decreto sul bonus. La spending review sarà lo strumento
guida nella formulazione della legge di Stabilità. Ed è chiaro che
andrà coinvolto l’intero governo per identificare obiettivi di
risparmio di spesa quantitativi, ma che permettano di preservare
l’efficienza dei servizi pubblici. Anche Regioni ed enti locali
dovranno essere coinvolti in questo processo».
E quanti tagli
servono? Gli obiettivi della spending review sono stati
riconsiderati?
«Ci muoviamo intorno alle cifre indicate in aprile
col documento di Economia e finanza, ma stiamo entrando solo adesso
nella fase di identificazione delle misure. In ogni caso gli
obiettivi dei tagli di spesa terranno conto del quadro economico
peggiorato».
Si può dire che è politica anche la scelta di
non tagliare?
«Certo. È una scelta politica tagliare o no, cosa e
come. Tutta la spending review è un’operazione altamente politica:
si tratta di individuare le priorità, e in un periodo di risorse
limitate. È un’operazione politica valutare se la spesa che si è
accumulata nel tempo si debba considerare acquisita o se non si debba
ripensare».
Ci sono aree che devono essere sottratte dalla
revisione della spesa, come la sanità o l’istruzione?
«Riteniamo
che ci siano margini finora largamente non considerati di
miglioramento di efficienza in tutta la pubblica amministrazione. In
tutti i settori ci sono spazi per risparmiare, non ce n’è uno più
spendaccione di un altro».
Senza preclusioni ideologiche,
quindi?
«Assolutamente no. Penso che sia un processo di ricerca
dell’efficienza, che naturalmente implica anche mettere in
discussione posizioni acquisite».
I suoi rapporti con
Cottarelli?
«Ottimi, da quando ci conosciamo».
Tensioni con
Renzi?
«Favole. Cose che mi annoiano».
Sabato c’è la
sfida, Roma-Fiorentina.
«Un regalo già gliel’ho
fatto...»
Quale?
«Gli risparmio un pellegrinaggio a Monte
Senario. Il problema dei debiti arretrati della pubblica
amministrazione di fatto è risolto, e in anticipo rispetto al suo
onomastico, il 21 settembre. Il meccanismo dello sconto fatture
presso le banche è decollato e sta funzionando molto bene. I
fornitori, fin da oggi, possono cedere alle banche il loro credito a
condizioni vantaggiose. Ad agosto le imprese sono corse ad presentare
le istanze di autocertificazione dei crediti: complessivamente sono
quasi 55 mila autocertificazioni, per un importo di circa 6 miliardi.
Che si aggiungono ai 26 già pagati con le anticipazioni di
tesoreria. Ci aspettiamo che le certificazioni crescano ancora, come
i rimborsi».
Partita chiusa, quindi?
«Restano i debiti in
conto capitale, che necessitano di una copertura perché impattano
sull’indebitamento netto dello Stato. Quest’anno sono 2-300
milioni, l’anno prossimo 2-3 miliardi. Ce ne occuperemo con la
legge di Stabilità».
Si faranno i 10 miliardi di
privatizzazioni previsti per quest’anno?
«Sicuramente entreranno
delle risorse. È un processo avviato, che non va visto con una
logica contabile. Gli immobili e alcune partecipazioni vanno
valorizzate prima di essere cedute, con azioni di management
importanti. Operazioni che richiedono tempo, ma che consentono di
mettere sul mercato aziende più efficienti e appetibili».
Ora
arriva la Tasi. Non c’è il rischio di un ingorgo dei pagamenti a
fine anno? Soldi che se ne vanno in tasse invece che in consumi?
«Il
rischio che ci sia un ingolfamento c’è se i sindaci non
prenderanno decisioni sulle aliquote nei tempi previsti. Ma sono
fiducioso, vedo che i Comuni si stanno muovendo. Quanto al peso delle
tasse sulla casa ci tengo a dire una cosa. È sbagliato, come ho
letto, fare paragoni tra quest’anno e il 2013. Il confronto giusto
va fatto con il 2012, perché l’anno scorso c’erano delle
esenzioni “una tantum”, e i dati che abbiamo noi, basati sul
gettito effettivo dei Comuni che hanno deliberato le aliquote già
nei mesi scorsi, dicono che sulla prima casa, rispetto al 2012, il
carico fiscale è mediamente minore, e che rimane sugli stessi
livelli per le seconde case e gli altri immobili».
La Festa, un test per il nuovo Pd
Stefano Menichini
Europa
In passato serviva a studiare i rapporti di forza nel partito e fra
i partiti. Tema ora inesistente. A Bologna vedremo alla prova un gruppo
dirigente atteso a un impegno terribile
Matteo Renzi ha imposto i “mille giorni” come tormentone dei dibattiti della Festa di Bologna, conferma del frame
nel quale vorrebbe inscrivere tutta la dinamica politica dei prossimi
tre anni. Nessuna velleità di precipitazioni elettorali. Nessun bisogno
di colpi a effetto e a pronta presa. Stabilità di governo e di
maggioranza (o meglio: maggioranze, considerando quella per le riforme
istituzionali). Completamento delle modifiche alla Costituzione. E
ovviamente, dettaglio che non guasta, la possibilità d’ora in poi di
sfuggire all’urgenza di rispettare le strettissime scadenze che da
neopremier si era dato appena incaricato.
Il quadro politico nazionale lavora tutto per Renzi, comprese le
opposizioni. Berlusconi è ormai all’appoggio esterno. Cinquestelle si
consuma con mosse individuali e di gruppo clamorosamente
autolesionistiche. La Lega sarebbe tornata dura e pura, se dietro alle
sparate di Salvini non si indovinassero violente tensioni interne.
Renzi ha davanti a sé, con cui fare i conti, “solo” la crisi
italiana. Cioè un autentico dramma, che però ha scelto consapevolmente
di affrontare. Se non riuscirà a prevalere non potrà darne la colpa ad
avversari politici interni o esterni al Pd, visto che in pochi mesi li
ha fatti fuori tutti. La nomina di Federica Mogherini nell’incarico
voluto per lei fin dal primo giorno dirà che anche in Europa Renzi non
le ha forse fatte tutte giuste (e deve ancora portare a casa risultati
su flessibilità e immigrazione), ma che ironie e sarcasmi sono stati
prematuri: l’Italia conta più di prima, e tra tanti premier azzoppati il
nostro è considerato in salute, perfino un punto di riferimento.
Detto di alcune condizioni favorevoli, è ovvio che tirare l’Italia
fuori dalla secca della recessione rimane impresa improba. Farcela o no,
non dipenderà solo dall’efficacia e rapidità delle misure elaborate tra
palazzo Chigi e ministero dell’Economia, né dalle mosse della Bce, né
dal coinvolgimento di imprese e lavoratori. La prova del fuoco toccherà
anche a tanti altri nel governo, nelle amministrazioni e nel Pd,
postazioni dove in un anno c’è stato un ricambio quasi integrale.
In passato la Festa nazionale era il luogo dove studiare le alchimie
dei rapporti fra i partiti e all’interno del partito: tema adesso
praticamente inesistente. Quest’anno sarà molto più interessante
misurare la maturità di una nuova generazione scaraventata in poco tempo
nel compito più difficile, dovendo vincere i propri limiti e diffidenze
non sempre immotivate.
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