Corriere della Sera 08/10/14
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Renzi commissaria il Parlamento
per evitare che la troika commissari l’Italia. D’altronde, se non
fosse una autentica emergenza nazionale, difficilmente Napolitano
sarebbe rimasto silente dinnanzi a un governo che pone la fiducia su
una legge delega, con cui di fatto le Camere e le forze politiche
vengono estromesse dalla scrittura del provvedimento. Ma il Jobs act
non è una riforma come altre, è parte essenziale della «trattativa»
con Bruxelles, come aveva avuto modo di spiegare la scorsa settimana
il titolare dell’Economia in Consiglio dei ministri, poco prima di
recarsi al Quirinale.
L’Europa — secondo Padoan — «ritiene
sia insufficiente» che l’Italia non sfori il 3%, perché chiede
che «almeno mezzo punto» venga destinato all’abbattimento del
debito pubblico: «Noi offriamo invece uno 0,1%, alcuni tagli
strutturali e soprattutto la riforma del mercato del lavoro. E
confidiamo si comprenda che, se non fosse accolta la nostra proposta,
non riusciremmo a risalire la china». Parole crude che avevano fatto
calare il gelo a palazzo Chigi. «Ma noi — aveva subito ripreso
Renzi — non possiamo accettare che ci venga tenuta la testa
sott’acqua».
Ecco qual è il valore del Jobs act, inserito
dal premier nella «trattativa» con Bruxelles per evitare quelle che
definisce «le regole capestro volute dall’Europa all’epoca del
governo Monti». Regole che, «fossimo costretti ad applicarle,
costerebbero 40 miliardi. Invece io punto a fare una manovra
espansiva per rilanciare l’economia. E lavoreremo per realizzarla,
alle condizioni date». Per riuscirci bisogna intanto sfuggire alle
«regole capestro» che «ha votato Bersani mica io», va ripetendo
Renzi quasi a voler esorcizzare l’esito negativo di un «negoziato
che — come ha tenuto a sottolineare Padoan — sarà comunque
difficile».
Di certo sarebbe stato impossibile se il governo
non avesse accelerato sulla riforma del lavoro, perciò il premier ha
forzato la mano, grazie anche a una copertura istituzionale che è
dettata dall’emergenza nazionale. A sua volta questo passaggio di
natura economica non è politicamente a saldo zero, produce effetti
sul sistema che nemmeno la riforma elettorale avrebbe determinato.
Sul Jobs act — per esempio — si misurerà la solidità del
rapporto di Renzi con Alfano, che non a caso l’altra sera in
Consiglio dei ministri aveva insistito sull’utilità di porre al
Senato la fiducia «anche per valorizzare il profilo riformatore
della maggioranza, per darle quel tratto distintivo che si deve a una
riforma epocale».
Il premier aveva convenuto con il leader di
Ncd, senza mostrarsi preoccupato per le resistenze della minoranza
democratica: «... Sarà poi responsabilità dei singoli parlamentari
decidere se fare andare avanti il governo o metterlo in crisi. Non
penso accadrà. Scommetto invece che arriveremo al 2018». È da
vedere se davvero Renzi arriverà a fine legislatura, ma non c’è
dubbio che la sua scommessa sul voto di palazzo Madama sembri
realistica, che il suo esecutivo otterrà la fiducia, «magari con
qualche assenza». Il riferimento del premier era ad alcuni suoi
compagni di partito, ma è chiaro che sul Jobs act si va profilando
un clima di larghe intese, per quanto camuffato.
Formalmente
Berlusconi vorrà marcare la distanza, in realtà il «soccorso
azzurro» è pronto a materializzarsi se ce ne fosse bisogno per
bilanciare — con qualche assenza — il dissenso tra i democrat:
«Vedremo se Verdini verrà a votare contro il suo governo»,
ridevano ieri sera alcuni senatori forzisti. Ma non è solo per
idiosincrasia verso la troika che il Cavaliere vuole evitare problemi
al premier. Basti vedere la trattativa in corso tra Pd e FI sulla
legge sul conflitto d’interessi, affidata all’azzurro Sisto e
caratterizzata addirittura da una norma sul blind trust: fumo negli
occhi un tempo per Berlusconi, a cui oggi interessa piuttosto il
matrimonio tra Telecom e Mediaset, che per realizzarsi necessita di
un «ritocchino» alla legge Gasparri...
Ma è il Jobs act la
chiave di volta. La drammatica crisi economica sta accelerando il
processo di archiviazione della Seconda Repubblica e nel frattempo ha
rottamato gli ultimi retaggi della Prima: perché l’incontro di
ieri tra Renzi e i sindacati, più che l’inizio di un dialogo è
parso la fine di un’era. Se ne sono resi conto i rappresentanti
delle forze dell’ordine, ricevuti poco dopo a palazzo Chigi. Quando
il premier ha ascoltato il loro plauso per alcune sue idee, li ha
interrotti: «Se conosceste tutte le riforme che ho in mente, non so
se mi applaudireste»
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