Corriere della Sera 28/09/14
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Contano solo le realizzazioni pratiche
o anche le innovazioni culturali? Dobbiamo valutare una leadership
solo per gli obiettivi concreti che ha raggiunto o anche per la
qualità delle idee che diffonde, per la visione che cerca di
trasmettere? Contano solo i «fatti» e il resto, tutto il resto, è
soltanto chiacchiera? Se pensiamo che importino solo i fatti, le
realizzazioni, gli obiettivi raggiunti, allora il giudizio sui primi
sei mesi del governo Renzi (che si è insediato il 22 febbraio 2014)
non è molto positivo. Sarà colpa della complessità e della
lentezza del processo decisionale in Italia, sarà colpa delle
divisioni entro i gruppi parlamentari del Partito democratico (ove
coloro che remano contro Renzi sono tanti), sarà colpa — come gli
imputano molti critici — del suo carattere, di una certa
superficialità, di una sua tendenza all’improvvisazione e alla
ricerca dell’applauso facile, non sorretta da un’adeguata
conoscenza dei problemi, o una combinazione di questi e di altri
fattori, ma i risultati di sei mesi di governo non appaiono esaltanti
né numerosi. Il carnet di Renzi non è ancora molto ricco e
l’encefalogramma sempre piatto dell’economia nazionale è lì a
testimoniarlo.
Ma è solo in questo modo che va valutata una
leadership? Oppure contano anche altri fattori, i cui effetti non
sono magari immediatamente misurabili, le cui conseguenze non
appaiono subito visibili ma che possono provocare, nel tempo,
cambiamenti di vasta portata? Molti pensano, con ragione, che Renzi
non raggiunga ancora la sufficienza in realizzazioni pratiche ma non
possono negargli un nove o un dieci in innovazione culturale. Forse
questa è anche la vera ragione del vasto consenso di cui gode nel
Paese. Renzi sta cambiando, o si sforza di cambiare, non solo il
volto ma anche l’anima della sinistra italiana, incidendo per
questa via sulla più generale cultura politica del Paese. Sono
almeno quattro gli ambiti in cui ha radicalmente innovato.
Per
cominciare, ha spazzato via in un colpo solo l’antiberlusconismo.
Per venti anni l’antiberlusconismo è stato il cuore dell’identità
della sinistra italiana. Anzi, esso era diventato la sinistra tutta
intera: null’altro la definiva e la teneva insieme. Sono rimasti
solo i Cinque Stelle a sventolare la bandiera antiberlusconiana.
Senza troppo successo, a quanto pare. Grazie a Renzi, bisogna dirlo,
la qualità della vita è migliorata. Non si inciampa più ad ogni
piè sospinto in quei fissati, quegli ossessionati da Berlusconi che
annoiavano tutti parlando solo di lui e che negli ultimi venti anni
incontravi continuamente, ovunque andassi.
Renzi, relegando
l’antiberlusconismo fra gli abiti dismessi, sta cambiando
l’identità della sinistra. Un compito che può assumersi solo uno
che ha autentiche qualità di leader. In secondo luogo, il premier ha
aggredito il tabù della «Costituzione più bella del mondo», ha
attaccato il conservatorismo costituzionale della sua parte politica.
Non sappiamo come andrà a finire la riforma del Senato (giudicheremo
alla fine: in materia costituzionale sono i dettagli che contano) ma
almeno possiamo dire che ci ha provato sul serio.
C’è poi la
circostanza che sta spaccando il Partito democratico in questi
giorni. Renzi è stato il primo leader della sinistra che ha detto la
verità sul conservatorismo della Cgil e sugli interessi che essa
difende a scapito di quali altri interessi. Scontri fra la sinistra
politica e la Cgil ce ne sono stati in passato (il principale, allora
vinto dal sindacato, fu quello fra Massimo D’Alema e Sergio
Cofferati negli anni Novanta) ma questa è la prima volta che la Cgil
si trova sulla difensiva, è costretta a misurarsi con
l’impopolarità. Unite al suo rifiuto della concertazione fra
governo e parti sociali, le prese di posizione del premier su
articolo 18 e Cgil stanno modificando senso comune e cultura politica
della sinistra.
E c’è infine l’innovazione più importante
di tutte, quella incarnata da Renzi stesso. Da sempre allergica
all’uomo forte, all’uomo solo al comando, la sinistra si trova
ora, precisamente, a subire il predominio dell’uomo forte, a subire
l’uomo solo al comando. Un altro tabù che se ne va in pezzi.
Ci
sono, naturalmente, quelli che pensano che Renzi sia più o meno
uguale a Berlusconi. Anche se Renzi corre effettivamente il rischio
di assomigliare a Berlusconi per un aspetto, la tesi è
complessivamente errata e sciocca. Il vero, e grave, problema di
Berlusconi era dato dal fatto che egli predicava abbastanza bene e
razzolava abbastanza male. Il male stava nel grande divario fra il
dire e il fare. Se le realizzazioni pratiche del governo
continueranno a scarseggiare, la stessa cosa, forse, si dirà fra non
molto di Matteo Renzi. Lo stesso avverrà se si scoprirà che il
governo usa un linguaggio innovatore per nascondere il fatto che la
sua politica è vecchia di decenni. Ad esempio, in materia
scolastica, ci saranno davvero le innovazioni che Renzi sbandiera
oppure tutto si risolverà, come è tradizione, nella assunzione di
un gran numero di precari senza alcun riguardo per la qualità?
Ciò
constatato, la tesi della identità fra Renzi e Berlusconi non regge,
offende il buon senso, anche se è spiegabile. Coloro che per decenni
hanno creduto che in politica l’alternativa fosse fra lo status quo
e la palingenesi (il Grande Cambiamento e altre formule simili) non
possono rassegnarsi di fronte a un leader che all’antico bla bla
sulla palingenesi sostituisce l’elogio dell’inventiva e della
innovazione tecnologica simbolizzate dalla Silicon Valley. Se la
palingenesi non ha più corso, essi pensano, resta solo lo status quo
e nello status quo tutti i gatti sono bigi, Renzi è uguale a
Berlusconi. Ma, naturalmente, la politica democratica è un’altra
cosa: è una gara fra coalizioni di interessi differenti che possono
cooperare su alcuni temi ma sono anche, inevitabilmente, in
competizione su altri. Renzi sta cambiando l’identità della
sinistra. O almeno si sforza di farlo. Ma non sta cambiando, grazie
al Cielo, la natura della politica democratica.
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