A cinquanta giorni dalla tregua tra Israele e Hamas, un ebook di
“Europa” traccia il primo bilancio politico di uno scontro che ha fatto
oltre duemila morti
Pubblichiamo un estratto dall’ebook La terza guerra di Gaza. Dal patto tra Hamas e Fatah alla sconfitta diplomatica di Israele, il primo libro che ricostruisce per intero la vicenda del conflitto della scorsa estate.
La guerra di Gaza si chiude il 26 agosto, lo scontro diplomatico è
ancora aperto. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sa bene di
essere uscito sconfitto dal confronto politico coi palestinesi. Voleva
ristabilire la situazione precedente il 23 aprile, data dell’accordo di
riconciliazione tra Hamas e Fatah, le due principali fazioni
palestinesi. Invece quel patto è ancora in piedi e per di più Israele ha
dovuto accordare, firmando la tregua con Hamas, un buon numero di
concessioni alla leadership di Gaza. Il premier israeliano deve
recuperare credito con l’opinione pubblica, specie verso destra.
Non si spiegherebbe, altrimenti, la decisione israeliana del 31
agosto – appena quattro giorni dopo l’armistizio – di annunciare la più
grossa acquisizione di territorio cisgiordano in trent’anni. La risposta
della comunità internazionale – Stati Uniti in testa – è dura: «Siamo
molto preoccupati, chiediamo al governo di Israele di tornare sui suoi
passi», dice il dipartimento di Stato.
Ma la logica di Netanyahu è tutta domestica. È stato lui a portare
Israele in guerra. Non ha esitato ad attribuire ad Hamas la colpa della
tragedia dei tre ragazzi uccisi – nonostante i dubbi delle stesse forze
di sicurezza israeliane – e a trarne le conseguenze. Ha scelto la via
dell’attacco di terra, dopo il primo fallimento dei negoziati in Egitto.
Da quel momento in poi, però, ha anche esercitato una funzione
“moderatrice” rispetto all’ala destra del suo governo. Netanyahu non ha
trasformato l’attacco di terra in una nuova occupazione militare della
Striscia. Ha limitato l’obiettivo della guerra alla distruzione dei
tunnel e poi alla “decapitazione” dei vertici di Hamas, evitando di
fissare l’asticella più in alto: non ha provato a «sradicare Hamas da
Gaza», come gli chiedevano i falchi Avigdor Lieberman e Naftali Bennett.
Una
richiesta popolare in Israele, almeno secondo i sondaggi. Le
rilevazioni di fine agosto mostrano l’ascesa dei partiti di estrema
destra, in particolare la Patria ebraica di Bennett. Il gradimento di
Netanyahu, cresciuto durante la guerra, scende invece al di sotto dei
livelli pre-bellici. Ma il suo partito, il Likud, tiene: perde a destra e
recupera verso il centro-sinistra. L’elettorato israeliano moderato
sembra avere ben chiaro qual è stato il ruolo del premier nelle ultime
settimane. Ora però Netanyahu ha bisogno di riacciuffare il consenso
ceduto ai nazionalisti, e riparte dagli insediamenti. (…)
Ma anche nel conflitto tra le diverse componenti del suo governo,
Netanyahu traccia un solco rispetto al passato recente: la terza guerra
di Gaza è conclusa, il confronto militare con Hamas – almeno per il
momento – è archiviato. Il 20 settembre il governo egiziano fa sapere
che i primi colloqui “indiretti” tra israeliani e palestinesi, per
rendere definitiva la tregua a Gaza, sono stati fissati per il martedì
successivo, il 23, al Cairo. All’alba di quel giorno le forze di
sicurezza di Israele uccidono Marwan Qawasmeh e Amer Abu Aisha, i
presunti colpevoli dell’omicidio dei tre ragazzi israeliani, dopo aver
tenuto sotto osservazione per una settimana l’edificio di Hebron dove si
nascondevano. La vicenda dei tre studenti ammazzati – usata come casus belli dal governo Netanyahu – è conclusa. Qualche ora dopo, in Egitto, hanno inizio i negoziati.
L’interlocutore, il governo palestinese di unità nazionale, ha
attraversato tensioni simili a quelle dell’esecutivo israeliano. La
guerra ha rafforzato il patto Hamas-Fatah, e questa è la principale
sconfitta di Netanyahu. Ma le prime settimane di pace mostrano che la
tenuta di quell’accordo è tutt’altro che scontata. (…) La questione più
spinosa è legata all’amministrazione della Striscia. Nell’immediato
Hamas non lascia entrare a Gaza il personale dell’Autorità palestinese.
Non apriremo le porte, dicono dal movimento islamista, finché non si
troverà il modo di ricominciare a pagare gli stipendi ai nostri
dipendenti pubblici. (…)
Gli attriti si stemperano quando la leadership di Gaza comincia a
incassare i “dividendi di guerra”. L’accordo con Israele prevede che si
inizi a provvedere alla ricostruzione della Striscia. Il 16 settembre
Robert Serry, inviato speciale dell’Onu per il Medio Oriente, annuncia
che è stata raggiunta un’intesa preliminare tra israeliani e palestinesi
per l’ingresso a Gaza dei materiali edili necessari. (E domenica scorsa
si è svolta anche la prevista conferenza dei donatori che finanzieranno
i lavori, ndr).
Il 25 settembre, un mese meno un giorno dalla fine della guerra,
arriva il passo decisivo. Il teatro è ancora il Cairo. I delegati di
Hamas e Fatah firmano un accordo che stabilisce la restituzione di Gaza
al controllo dell’Autorità palestinese. I valichi di frontiera con
Israele e con l’Egitto saranno dati in gestione a tremila poliziotti
della Palestina unita, con la collaborazione dell’Onu; gli stipendi dei
dipendenti pubblici di Gaza verranno pagati per il tramite di una
organizzazione internazionale ancora da definire. Se l’accordo verrà
rispettato sarà la conclusione della guerra civile palestinese, a sette
anni dal suo inizio.
Il giorno successivo, trigesimo della tregua, Abbas parla
all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, come presidente del
riunificato Stato di Palestina. È un discorso durissimo nei toni: usa il
termine «genocidio», tornando a evocare (implicitamente) lo spettro di
una denuncia di Israele davanti al Tribunale penale internazionale. Ma
la strategia di fondo è la stessa del mese di aprile, quando i negoziati
di pace erano entrati in una fase di stallo.
Abbas vuole che Israele riconosca lo Stato di Palestina, al termine
di una trattativa sui suoi confini e in cambio del riconoscimento
reciproco. Dopo il blocco del processo di pace e la guerra a Gaza, però,
il presidente palestinese si prepara ad avviare una nuova fase. Ha già
usato l’accordo con Hamas e la richiesta di adesione alle organizzazioni
legate all’Onu come strumenti di pressione. Ora ne aggiunge un altro:
annuncia che sottoporrà al Consiglio di sicurezza una nuova risoluzione
sul conflitto israelo-palestinese. Il documento dovrà sostenere ancora
una volta la soluzione dei due Stati, ma «con una tabella di marcia
precisa per l’implementazione». Questa risoluzione «sarà legata
all’immediato riavvio dei negoziati tra Palestina e Israele per
delimitare i confini, raggiungere un accordo dettagliato e ampio, e
scrivere la bozza di un trattato di pace tra i due Stati».
È una strategia conflittuale, quella di Abbas. Mosse unilaterali,
quando i colloqui bilaterali non procedono. È la stessa strategia che lo
ha portato all’accordo con Hamas. Netanyahu ha provato a usare la
guerra per abbattere quell’accordo, senza riuscirci. La riunificazione
di Gaza e Cisgiordania procede. E allora il presidente palestinese
insiste. Se Israele rifiuta di sedersi a un tavolo per disegnare la
frontiera dei due Stati, la Palestina prova a forzare la mano facendo
ricorso all’Onu.
Non è detto che ci riesca. Un atteggiamento di sfida da parte dei
palestinesi può rafforzare la destra israeliana, che chiede di
interrompere qualsiasi dialogo tra le parti. Gli Stati Uniti hanno
subito condannato i toni aggressivi del discorso di Abbas. Ma Washington
potrebbe anche trarre beneficio dalla mossa del presidente palestinese:
«Disegnare una mappa dei confini (dei due stati) dovrebbe essere il
primo passo», diceva l’America a maggio, dopo l’interruzione dei
negoziati. La minaccia di un’azione dell’Onu può essere uno strumento in
più per far pressione nei confronti di Netanyahu. E lui, Bibi il
pragmatico, accetterà mai di mettere la sua firma sull’atto fondativo
dello Stato di Palestina?
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