Vera Lomazzi
Facebook e Apple propongono di pagare
il congelamento degli ovuli delle dipendenti. La notizia ha fatto
scalpore, suscitando nella maggioranza dei casi giudizi negativi. La
proposta, dipinta come benefit, rischia in realtà di riprodurre la
disparità tra uomini e donne (e tra donne) e interroga su questioni
fondamentali come la concezione di persona e del rapporto con il
lavoro, opzioni culturali che hanno anche una rilevanza politica.
La Silicon Valley, dove queste aziende
risiedono, è piuttosto nota per essere un contesto prevalentemente
maschile (gli uomini rappresentano l’86%) e tendenzialmente
discriminatorio nei confronti delle donne. Il pagamento del
congelamento degli ovuli rientrerebbe nella strategia di attrarre le
eccellenze femminili che, secondo questo piano, potrebbero rimandare
la maternità in seguito, cioè quando abbiano raggiunto gli
obiettivi di carriera. E diciamolo, di produttività.
È opportuno precisare che il benefit
in questione non è l’unico offerto. Per esempio, Facebook offre ai
neogenitori (uomini e donne) 4.000 dollari, oltre a 4 mesi di
permesso di genitorialità e il rimborso per alcune spese, tra cui
anche quelle relative all’adozione. Il direttore operativo di
Facebook è Sheryl Sandberg, una delle poche donne in ruoli di
comando in questo settore, riferimento per l’empowerment femminile,
che ha sempre valorizzato il suo essere madre, oltre alla
realizzazione lavorativa. Il suo best seller “Lean it” e i suoi
discorsi sul ruolo delle donne nella società sono fonte di
ispirazione per molte donne, soprattutto nel contesto americano. È
difficile collegare la pratica discussa con questo scenario e se
queste aziende leader stessero gettando le basi per un orientamento
condiviso delle politiche aziendali e del modo di concepire
l’equilibrio da famiglia e lavoro, vorrei mettere a fuoco due
aspetti, tra i molti, che questo “benefit” pone a tema.
Innanzitutto interroga sul rapporto tra
persona e lavoro: l’esperienza lavorativa fa parte della vita delle
persone o la vita delle persone fa parte del lavoro? Non so se si
tratti realmente di un benefit per le lavoratrici, ma senza dubbio lo
è per le aziende. Sono sempre più numerosi gli studi che dimostrano
i vantaggi economici del diversity management ed è comprensibile che
anche nella Silicon Valley si voglia valorizzare il capitale
femminile che altrimenti rischia di essere sprecato perché
inespresso. Cinicamente si potrebbe dire che in questo modo le
aziende possono sfruttare a pieno queste risorse allontanando il
“problema” della maternità. Le lavoratrici in questa prospettiva
sono soltanto “forza lavoro” inglobata nel processo produttivo e
l’azienda invade quello riproduttivo.
L’altra questione riguarda la
privatizzazione dell’equilibrio tra vita familiare e vita
lavorativa e le sue conseguenze sulla (dis)parità tra uomini e
donne. Katherine
Rushtorn ritiene che questa proposta sia in grado di
“aiutare le donne nel gestire le proprie carriere e famiglie”.
Credo che la giornalista sbagli ad utilizzare il verbo “to manage”
(gestire), perché la gestione prevede che si fronteggino più cose
contemporaneamente, mentre qui si spazza la scena rimandando la
maternità e lasciando solo il lavoro. Ma la questione è soprattutto
un’altra. Questa non è affatto una buona prassi per il supporto
all’empowerment femminile, ma l’ennesimo ricatto alle
lavoratrici. Cosa accade alle donne che non perseguiranno questa
strada? Avranno le stesse opportunità delle altre? Che tipo di
competizione e nuove forme di segregazioni si svilupperanno?
Oltretutto, ancora una volta, il conciliare famiglia e lavoro sembra
essere solo una questione femminile. Forse i 20.000 dollari per il
congelamento degli ovuli potrebbero essere investiti per creare un
contesto realmente paritario per lavoratori e lavoratrici.
Queste aziende ci comunicano anche una
prospettiva: famiglia e lavoro non sono conciliabili, bisogna
segmentare la propria esistenza. Bisogna scegliere: o l’una o
l’altro. E ovviamente chi deve procrastinare, ricalcando gli
stereotipi delle donne in carriera, vivendo le pressioni tra la
richiesta di efficientismo aziendale e i giudizi negativi dovuti
all’aver dato priorità al lavoro, sono le donne, non gli uomini.
Questa singola pratica quindi non riduce la disparità, ma massimizza
unicamente le performance lavorative. Chi ritiene che sia sufficiente
allinearsi ai parametri di un sistema economico monogenere per
promuovere parità fa un torto al concetto stesso di parità, che è
inclusivo, multidimensionale e che trascende la sfera lavorativa.
Ho usato il termine “conciliazione”,
come si fa spesso. Sbagliando. È un termine che presume un conflitto
pre-esistente, come se si dovesse far andare d’accordo due cose che
naturalmente non sarebbero, appunto, conciliabili. Invece, famiglia e
lavoro fanno parte da sempre dell’esperienza umana, sebbene con il
contributo dell’economica capitalista, queste due sfere
fondamentali dell’esistenza si siano allontanate. Credo che il
termine più corretto da usare sia ri-conciliazione. Le parole sono
importanti e rivelano anche quale concezione antropologica di
riferimento si assume. E, di conseguenza, come si intende orientare
lo sviluppo della società.
Il caso dei colossi della Silicon
Valley ci dice anche quanto il tema della ri-conciliazione sia
relegato alla sfera privata. Del resto in America solo lo 0,7% del
PIL viene speso per benefit alle famiglie con figli (la media europea
è del 2,2%). Il welfare aziendale è senza dubbio un elemento
fondamentale, anche nella prospettiva del welfare plurale, e indica
la consapevolezza dell’azienda che contribuire a rendere più
facile la gestione dei tempi e promuovere la valorizzazione del
diversity rappresentano benefit per tutti.
La questione è: spetta unicamente (o
prevalentemente) al privato occuparsene? Non credo.
Se la scelta procreativa è una
questione estremamente domestica, la gestione di ciò che è una
questione sociale, è una partita pubblica. E la ri-conciliazione tra
famiglia e lavoro riguarda la qualità della vita di tutti (uomini,
donne, bambini, anziani) e ha effetti economici positivi: è quindi
una questione di cui soprattutto il pubblico dovrebbe farsi carico.
Invece, è un tema che la politica italiana non ha ancora affrontato
seriamente, senza preoccuparsi di stabilire riforme sociali vere,
segno di una strategia integrata capace di coniugare occupazione
(femminile e maschile) e genitorialità.
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