Corriere della Sera 30/10/14
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Dell’uso dei manganelli d’un tempo
avremmo fatto volentieri a meno. La vertenza degli operai dell’Ast
per evitare il drastico ridimensionamento dello stabilimento di Terni
si presenta ancor più complessa di altre perché oltre agli
orientamenti liquidatori dei proprietari tedeschi — nei confronti
di un impianto considerato eccellente per gli standard del settore —
si paga il prezzo di regole europee non più al passo con i tempi. In
uno scenario di business ormai contrassegnato dall’ascesa delle
potenze siderurgiche asiatiche, l’Antitrust di Bruxelles ha
impedito la vendita dello stabilimento ai finlandesi dell’Outokumpu
per evitare che assumessero una posizione dominante e così la
fabbrica umbra è tornata a far parte del gruppo Thyssen che la
considera residuale.
Mentre dunque c’è da affrontare questa
crisi, e forse da aprire una contestazione con la Commissione Ue
appena insediatasi, ieri la tensione tra manifestanti e forze
dell’ordine ha occupato quasi totalmente la scena e abbiamo passato
la giornata non più a discutere di politica industriale bensì di
attribuzione di colpe al ministro competente, al questore o al
singolo poliziotto. I metalmeccanici di Genova, appena informati
dell’accaduto, hanno addirittura indetto uno sciopero per
domani.
Ha senso tutto ciò o forse è necessario un bagno di
realtà? È utile infilare la vertenza Ast nel tritacarne delle
polemiche tra Palazzo Chigi e i sindacati? In un caso altrettanto
spinoso, come quello della svedese Electrolux che inizialmente voleva
lasciare l’Italia, governo e organizzazioni sindacali di categoria
hanno lavorato nella stessa direzione e un risultato comunque lo si è
ottenuto.
È chiaro che, pur evitando di confondere ordine
pubblico e politica industriale, non si può dimenticare come
l’iniziativa del premier Matteo Renzi stia scardinando vecchi
equilibri e che questa pressione stia generando una contrapposizione
ruvida. Al punto che sono stati evocati come suoi mandanti morali e
materiali, in successione, Margaret Thatcher e Sergio Marchionne. In
omaggio al principio à la guerre comme à la guerre nella battaglia
mediatica non si va tanto per il sottile ma è lecito chiedersi a
cosa serva tutto ciò e quale sia il legame tra comunicazione e
soluzione dei problemi reali. Prendiamo lo sciopero generale che
verrà indetto tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre e
che, forse, solo un’incauta anticipazione di Nichi Vendola ha
contribuito a ritardare.
La parola d’ordine su cui la Cgil
punterà tutte le sue carte per far riuscire l’astensione dal
lavoro è la richiesta dell’adozione di una tassa patrimoniale. Non
è certo la prima volta che se ne parla negli ultimi anni e non è un
caso che alla fine non sia stata mai adottata. Il motivo è semplice:
con altissima probabilità la nuova imposta non finirebbe per colpire
le grandi ricchezze bensì una parte consistente del ceto medio, già
ampiamente tosato dalle imposizioni sulla forma di patrimonio più
diffusa (la proprietà della casa). E allora ha senso proporre uno
sciopero generale, per di più della sola Cgil, con l’obiettivo di
far salire ancora la pressione fiscale? Si pensa davvero che si possa
uscire dall’impasse riproponendo la vecchia e fallimentare ricetta
del «tassa e spendi»? È questa la vera discussione da fare, il
resto è solo vento per le bandiere.
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