Intervista al Senatore Giorgio Tonini a cura di Pierluigi Mele
Sulla Riforma del lavoro il PD sta
compiendo la sua Bad Godesberg?
Ne parliamo con Giorgio Tonini,
vicepresidente del PD al Senato e membro della Segreteria nazionale
del partito.
Tonini, qualche osservatore ha
invocato per la riforma del lavoro a Renzi il coraggio di fare una
“Badgodesber”, ovvero di rompere il tabù dell’articolo 18. La
rottura nel PD ,avvenuta nella tarda serata di lunedì, durante
la direzione può essere considerata una piccola Badgodesberg per il
PD ?
In un certo senso si. Renzi ha proposto
alla direzione del Pd un cambiamento profondo di cultura politica
sulla questione delicata e decisiva delle tutele del lavoro; e la
direzione ha risposto con un si largamente maggioritario. Un partito
riformista di centrosinistra, qual è il Pd, non sarebbe tale se non
si battesse per i diritti dei lavoratori: il diritto al lavoro,
innanzi tutto; e poi il diritto nel lavoro. Il problema è che le
forme concrete che questi diritti universali devono assumere non
possono essere oggi le stesse di quasi mezzo secolo fa. Allora, negli
anni sessanta, in un contesto di crescita economica impetuosa e di
quasi piena occupazione, il modello produttivo che appariva vincente
era la grande fabbrica fordista, nella quale si entrava da ragazzi e
si usciva da pensionati. In quel contesto, i diritti dei lavoratori
si identificavano con la loro tutela sul posto di lavoro. Oggi quel
mondo non esiste quasi più e comunque non è il mondo del futuro,
quello nel quale abiteranno i giovani, i nostri figli. Il loro mondo
è caratterizzato da una lunga durata della vita lavorativa e da un
inevitabile alternarsi di periodi di lavoro e di periodi di ricerca o
comunque di cambiamento di lavoro. Dunque, alla centralità della
tutela sul posto di lavoro deve sostituirsi quella della tutela nel
mercato del lavoro: offrendo più opportunità di essere assunti e in
maniera stabile, un sostegno al reddito nei periodi di perdita del
lavoro, strumenti di accompagnamento e ricollocazione in un nuovo
lavoro, e in tutte queste fasi formazione, formazione, formazione. Il
Jobs Act Renzi-Poletti si muove decisamente in questa direzione, la
direzione di un nuovo patto virtuoso tra impresa e lavoro.
Veniamo al famoso editoriale del
Corriere della Sera, firmato dal Direttore De Bortoli, in cui si
criticava Renzi per la sua inconcludenza. Ma c’è un passaggio ,in
quel pezzo, che ha colpito l’opinione pubblica: ovvero che il
patto del nazareno ‘odora di massoneria “. Cos’è una battuta o
vede altri scenari?
Mi ha molto colpito quel passaggio.
Renzi ha risposto al direttore del Corriere, protestando di essere un
boy scout e non un massone. Questo è quello che vedono e sanno tutti
gli italiani. Se De Bortoli sa qualcosa di diverso, lo dica: è il
suo dovere di giornalista. In nessun paese anglosassone sarebbe
tollerabile che il direttore di un grande giornale facesse intendere
ai suoi lettori di sapere qualcosa di compromettente a riguardo del
capo del governo e di non volerlo dire loro con chiarezza e
trasparenza.
La scorsa settimana Renzi non ha
fatto altro che prendersela con i “poteri forti “. Francamente la
cosa è ridicola, visto le frequentazioni renziane (marchionne e
Altri). Che idea si è fatto di questo scontro?
Credo che si tratti in gran parte di un
dibattito mediatico, con pochi riscontri nella realtà. Del resto, lo
stesso Renzi ci ha riso su, dicendo che in Italia più che poteri
forti ci sono pensieri deboli. Nei giorni scorsi, alcuni
imprenditori, come Della Valle, hanno aspramente criticato Renzi.
Altri, come Marchionne, lo hanno coperto di elogi. Per fortuna siamo
un paese libero e nei paesi liberi le cose vanno così: il governo,
qualunque governo, ha una parte del paese che lo sostiene e una che
lo avversa. Al momento, il gradimento del premier, del suo governo e
del suo partito sono molto alti. Vuol dire che sono molto alte le
aspettative del paese su questa in gran parte nuova classe dirigente.
Renzi sa molto bene e lo ripete continuamente che ha sulle spalle la
responsabilità di non mandare deluse tutte queste aspettative.
Renzi ha aperto, su alcuni temi, al
Sindacato. Resta però il un fastidio del Premier verso il Movimento
sindacale. Insomma, francamente, non trova semplicistico (per non
dire altro) tutto questo?
Anche in questo Renzi è un uomo della
sua generazione, nata quando il sindacato aveva da tempo oltrepassato
lo zenit del suo consenso e della sua influenza nel paese. La verità
è che in questi anni il sindacato non ha saputo rinnovarsi, se non
molto, troppo lentamente e parzialmente, e chi non si rinnova
declina. Basti pensare a quelle tre sigle: Cgil, Cisl e Uil, sigle
gloriose, ma figlie delle divisioni della guerra fredda, cioè di un
mondo che semplicemente non esiste più. Perché debbano esserci
ancora oggi tre grandi centrali confederali e non una sola, grande
organizzazione, unitaria, autonoma e riformista, come ad esempio il
Dgb tedesco, è una domanda alla quale è impossibile dare una
risposta. Negli anni settanta il sindacato guidava il cambiamento,
anche col suo percorso unitario, mentre oggi fatica a inseguirlo. Al
punto che la politica è più avanti: con il Pd si è realizzata
l’unità politica dei riformisti, sognata per decenni, mentre
dell’unità sindacale si sono perse le tracce.
C’è un altro punto che colpisce:
ovvero una certa inclinazione di Renzi verso la cultura
imprenditoriale più che al primato del lavoratori. E’ così?
No, non è così. Renzi ha denunciato,
in modo anche aspro e urticante, la crisi di rappresentatività e
dunque di legittimazione, prima dei partiti politici e poi anche
delle organizzazioni sociali ed economiche, dei sindacati come delle
organizzazioni imprenditoriali. Poi, certamente, Renzi non crede alla
cultura del conflitto di classe, tradizionalmente egemone nella
cultura marxista in generale e comunista in particolare, ma si
riconosce piuttosto in una versione moderna di quel filone
cristiano-sociale, ma anche liberal-socialista, che valorizza un
approccio cooperativo e partecipativo delle relazioni industriali: un
filone per il quale l’imprenditore non è il nemico di classe, ma
una risorsa imprescindibile per la crescita e lo sviluppo. Nel corso
della direzione di lunedì scorso, Renato Soru ha tenuto un
appassionato e assai applaudito intervento in questo senso,
ricordando il discorso di Veltroni al Lingotto, che aveva aperto una
fase nuova su questo punto decisivo. Queste nuove relazioni sindacali
hanno bisogno di regole nuove della rappresentanza e della
contrattazione, compresa una norma di legge sul salario minimo. Su
questo, lunedì in direzione Renzi ha detto cose nuove e assi
interessanti, quando ha annunciato che riaprirà la sala verde di
Palazzo Chigi, ma non per riprendere lo stanco rituale della vecchia
concertazione, bensì per concordare nuove regole che consentano di
spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a
quello aziendale, l’unico nel quale si può apprezzare, incentivare
e distribuire la produttività. Anche per questa via si rilanciano la
crescita e l’occupazione.
Come sarà, secondo lei, il cammino
del Job act?
Tutto è difficile e faticoso, in
questo parlamento, segnato dal vizio d’origine della mancanza,
almeno al Senato, di una chiara maggioranza uscita dalle urne. Ma
entro l’anno il Jobs Act sarà legge. E ci saranno, nella legge di
stabilità, risorse aggiuntive per i nuovi ammortizzatori sociali.
Cosa succederà alla minoranza del
PD ?
Non credo si possa parlare di minoranza
al singolare. C’è piuttosto un arcipelago di minoranze, alcune
delle quali assai vicine alla linea politica del segretario, altre
più inclini alla nostalgia per la vecchia “ditta rossa”,
altre ancora molto affini, per contenuti e linguaggi, al piccolo
mondo della sinistra critica. Tutte queste componenti devono avere ed
hanno piena cittadinanza in un grande partito democratico a vocazione
maggioritaria. Alla sola condizione che il pluralismo interno al
partito sappia poi trasformarsi in unità nel voto in parlamento. Fu
l’incapacità o l’impossibilità di fare questo passaggio che
impedì, prima all’Ulivo e poi all’Unione, di dar vita a governi
stabili e credibili. Ma chi fece cadere i governi Prodi, sia a
sinistra che al centro, non è stato premiato dagli elettori.
Dopo questi mesi di governo, come
definirebbe il “renzismo”?
Lo definirei come la consapevolezza
della necessità ineludibile, per l’Italia e per l’Europa, di
riforme profonde e coraggiose. A cominciare dal cambiamento radicale
della politica: delle istituzioni, dei partiti e dei loro gruppi
dirigenti, e soprattutto della cultura politica. E come il tentativo
di fare le riforme con il popolo e non senza o magari contro il
popolo.
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