Piero Schiavazzi
l'Huffingtonpost 15 ottobre 2014
In attesa di cambiare le regole della
Chiesa - non prima del prossimo autunno, quando i vescovi, dopo avere
consultato le rispettive basi, torneranno a riunirsi in seduta
“deliberante” - il sinodo ha però modificato fin d’ora la
geografia. Rimettendo al centro l’Italia, che con l’elezione di
Bergoglio aveva subito un brusco ridimensionamento, tagliata fuori
dal circuito delle idee e delle decisioni. E rieditando un classico:
con il ritorno in grande stile del dualismo Roma - Milano, culminato
a fine millennio nel confronto tra i giganti Karol Wojtyla e Carlo
Maria Martini.
Con una differenza non da poco. Mentre
Roma in passato custodiva la tradizione, Milano promuoveva
l’innovazione. Non il contrario, come accade invece stavolta,
invertendo i ruoli e scambiandosi le parti di progressista e
conservatore.
Paolo VI, in procinto di essere
beatificato domenica, non avrebbe mai immaginato che in coincidenza
con il lieto evento proprio la diocesi di cui fu vescovo, la più
grande del mondo, diventasse per ingrato paradosso il caposaldo
dell’opposizione a quel modo di essere - pensare - agire che in
gergo ecclesiastico va sotto il nome di “montiniano”.
L’aggettivo descrive in positivo o
negativo, a seconda dei punti di vista, un atteggiamento di
conciliazione o compromesso con la modernità, spingendosi ad
assumere dosi omeopatiche di relativismo, nel tentativo di allargare
il recinto della chiesa e includervi ambiti esistenziali, e
culturali, rimasti esclusi. Dai divorziati ai gay. Seguendo un
criterio di “gradualità”: ricetta magica e slogan dominante del
sinodo, dispensato a go-go come un lievito nei discorsi dei padri e
nel calderone del dibattito. Nell’auspicio che compia il miracolo,
improbabile, di amalgamare un’assise visceralmente divisa. E
rimandando al secondo tempo il verdetto di una partita spettacolare
ma senza reti, ricca di colpi di scena, con la possibilità che
tocchi al Papa stesso, in extremis, scendere in campo e sbloccare il
risultato nei supplementari. Ad ottobre 2015.
La farmacia
omeopatica intanto, sfrattata da Milano, ha trovato ospitalità in
Abruzzo, a Chieti, nel laboratorio dell’arcivescovo Bruno Forte,
teologo di fama mondiale ma in odore di sinistra, perciò confinato
in provincia da Ruini e richiamato nell’Urbe da Francesco, nella
veste di Segretario Speciale, ossia “commissario politico”
dell’assemblea. L’ultimo composto di sua fattura, la Relatio post
disceptationem, ha biblicamente scosso “fino alle midolla e alle
giunture” il corpo ecclesiale, suscitando consensi e contestazioni,
con riferimento alla formula che riconosce l’apporto e il talento
delle persone omosessuali, a beneficio della comunità dei fedeli.
Evidenza che si affaccia per la prima volta in un testo scritto, ma
riluce in vero da cinque secoli nei dipinti della Sistina, dove lo
Spirito esaltò “le doti e le qualità” di Michelangelo.
Tornando al “montiniano”,
l’etichetta riassume l’approccio dubitativo e problematico di
Paolo VI, che cinquant’anni dopo ha raggiunto l’apice, anche
altimetrico, nell’ormai celebre “Chi sono io per giudicare”,
pronunciato in aereo da Francesco. Mai udito prima sulle labbra di un
Pontefice.
Sul fronte degli oppositori, la
propensione a smarcarsi e fungere da “contraltare”, termine mai
tanto appropriato come in questo caso, accompagna da sempre la chiesa
milanese, autonoma nel rito e nel calendario, nell’anno liturgico e
nel modo di celebrare, detti appunto “ambrosiani”. Versione
antesignana e raffinata di federalismo in talare. Ma il passaggio da
“capitale morale” a “capitale della morale”, nell’accezione
conservatrice seppure non integralista della parola, costituisce un
fenomeno nuovo, uscito allo scoperto solo di recente, attraverso i
discorsi, gli articoli e le interviste dell’arcivescovo Angelo
Scola. L’ultima, illuminante, su Repubblica.
Ne emerge il profilo di una destra
“ferma” ma non immobile, che arrocca nella chiusura sulla
comunione ai divorziati, ma spiazza con le aperture sulle coppie gay.
Una destra fashion, che pratica i linguaggi mediatici e parla di
rivoluzione sessuale (“una sfida forse non inferiore a quella
lanciata dalla rivoluzione marxista”). Ma anche pragmatica, che
ascolta i sondaggi e sprona il governo sulla civil partnership, per
scongiurare l’avvento del matrimonio tout court (“siamo stati
lenti nell’assumere uno sguardo pienamente rispettoso della dignità
e dell’uguaglianza delle persone omosessuali”).
Niente a che vedere con le tesi legnose
del cardinale Raymond Leo Burke, capofila teocon, intagliate con
l’accetta di un trapper del Wisconsin, da cui proviene. Né con la
dottrina difensivista e le entrate dure, ma prevedibili, del
confratello Gerhard Müller, prefetto del Sant’Uffizio, che ha
definito indegna e vergognosa la “Relatio”. Nemmeno infine con
gli argomenti esangui di Camillo Ruini, che spoglio del potere di un
tempo si appella al diritto divino, prestando il volto suo malgrado
alla “stanchezza” dell’Europa, tratteggiata con sguardo
misericordioso e giudizio impietoso da Bergoglio.
Scola, invece, rivendica l’unicità
della mens europea ed evoca l’età aurea di Giovanni Paolo II,
dando voce alla nostalgia neo – wojtyliana e intercettando, su
questa linea, il malcontento di chiese vitali, come quella polacca,
che ha pubblicamente sfiduciato l’ungherese Péter Erdő, attuale
presidente dei vescovi continentali, nonché relatore generale del
sinodo, colpevole di cedimento alle “influenze della ideologia
antimatrimoniale”.
Preceduta - e annunciata - dalle
incursioni del guastatore Antonio Socci, assistiamo a una
controffensiva dell’armata ciellina, nell’intento di rompere
l’assedio, dopo avere arretrato per mesi, cedendo posizioni, sotto
i colpi congiunti della dirigenza CEI e di Palazzo Chigi. Divisi tra
loro ma uniti nell’intento di debellare l’influsso di CL, in
politica e tra i vescovi.
Sullo sfondo si intravedono le manovre
di “Reconquista” di Palazzo Marino, affidate nel 2016 all’ultimo
moicano Maurizio Lupi. Il suo insediamento, unitamente al
consolidamento di Scola sulla cattedra di Sant’Ambrogio, renderebbe
la città meneghina un monocolore. La “Nuova Gerusalemme”,
celeste e terrena, di Comunione e Liberazione.
Con le debite distinzioni, una lettura
crossover delle vicende sinodali e di quelle politiche, specie del
PD, può aiutare a comprendere il confronto – e conflitto – in
atto tra due modelli di comunità ecclesiale, che esula dagli stessi
temi della famiglia e guarda oltre, verso il prossimo conclave. Sulle
due sponde del Tevere, in suggestiva e pedagogica sincronia, si
scontrano due “format”. Da un lato la Chiesa di popolo, che
prende il sopravvento sui movimenti. Dall’altra il partito degli
elettori, che hanno soppiantato i militanti.
Come il PD, la Chiesa di Francesco
aumenta i voti e aliena gli iscritti. Attira i lontani ma disorienta
i vicini. Accresce il favore nella massa dei semplici battezzati ma
perde consenso tra le schiere dei cattolici organizzati. In una
transizione epocale che la storia racconterà con distacco. Ma che i
contemporanei, al presente, vivono e combattono con trasporto
emotivo. Suonando la carica e andando all’attacco.
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