La vera sfida del secondo mandato di Rousseff sarà quella di
migliorare le sue capacità di articolazione politica per riunire attorno
a sé una coalizione parlamentare in grado di fare ripartire il paese
A leggere la stampa internazionale non sembra che la
presidente uscente Dilma Rousseff – candidata del Pt, il partito dei
lavoratori fondato da Luiz Inácio Lula da Silva – domenica scorsa abbia
vinto l’elezione più combattuta della storia verde-oro, né che la
maggioranza dei suoi concittadini le abbia dato fiducia per governare il
Brasile sino al 2018. Quasi tutti i grandi media si sono infatti
preoccupati di sottolineare elementi “residuali”.
Come ad esempio “lo stretto margine della vittoria” – 3,5 milioni e
mezzo di voti non giustificano titoli come “paese spaccato” – o gli
aspetti negativi del Brasile targato Pt – la cui vittoria è anche del
Partito democratico di Renzi che Dilma l’ha sempre appoggiata.
Con la vittoria di Rousseff su Aécio Neves, il preferito di Wall
Street, candidato del Psdb, partito che di socialdemocratico ha oramai
solo il nome, The Economist e Financial Times, Le Monde e Cnn –
per non dire dei media brasiliani quasi tutti schierati contro Dilma –
hanno così scoperto (dei veri Sherlock Holmes) che in Brasile c’è molta
corruzione, mancano le ferrovie e, dulcis in fundo, l’economia è
“ferma”.
Se questo è il panorama descritto, come spiegare allora l’ennesima
vittoria di Dilma, la quarta di fila alla presidenza del Pt? La maggior
parte dei “grandi media” ha fatto ricorso a spiegazioni
etnico/geografiche ma, anche qui spiace dirlo, hanno preso “lucciole per
lanterne”.
Il primo mito da sfatare è infatti che a garantire la vittoria della
Rousseff sarebbe stato il Nord-est del paese, la regione meno
sviluppata, e dove maggiore è l’impatto dei programmi sociali petisti.
In realtà Aécio ha perso perché nel Minas Gerais, da lui governato dal
2003 al 2010, la maggioranza degli elettori, chissà memore della
corruzione del suo esecutivo, gli ha preferito Dilma. Se ad esempio
avesse ottenuto lo stesso risultato di Fernando Henrique Cardoso a Minas
nel 1994, oggi Neves sarebbe presidente del Brasile.
Per i grandi media la vittoria del Pt è dovuta così ad un motivo
principale: avere incluso nella società brasiliana oltre 50 milioni di
poveri che sino al 2003 erano dei paria, avendo concesso loro
micro-crediti tramite la Caixa Economica Federale, luce elettrica con il
programma “Luce per Tutti” e case popolari grazie al progetto “Minha
Casa Minha Vida”. Per non dire poi del Borsa Famiglia, visto da alcuni
come la causa di tutti i mali solo perché dà alle persone con redditi
inferiori a 321 reais (circa 100 euro), la possibilità di uscire dalla
miseria più nera.
“Voto di scambio” ha scritto chi vede come il fumo negli occhi
qualsiasi politica sociale di redistribuzione dei redditi, facendo finta
che prima del Pt il Brasile fosse la Svizzera e la compravendita dei
voti non ci fosse.
Altri hanno addirittura alluso alla presunta scarsa affidabilità del voto elettronico – se avesse vinto Aécio lo avrebbero fatto? – sottolineando il vantaggio minimo di Rousseff su Neves.
Altri hanno addirittura alluso alla presunta scarsa affidabilità del voto elettronico – se avesse vinto Aécio lo avrebbero fatto? – sottolineando il vantaggio minimo di Rousseff su Neves.
Ridicolo e paradossale perché è stato invece molto positivo che la
vittoria di Dilma sia stata “solo” di 3,5 milioni di voti e non di 10.
Il motivo? Semplice, questo minor vantaggio contiene un monito chiaro
rivolto alla presidente affinché cambi registro, cominciando ad unire
come faceva Lula invece di dividere. La vera sfida del secondo mandato
di Rousseff sarà quella di migliorare le sue capacità di articolazione
politica per riunire attorno a sé una coalizione parlamentare in grado
di fare ripartire un paese dalle enormi potenzialità ma, oggi, quasi
“fermo” come il Brasile. Il resto sono solo i desiderata di chi a mezzo
stampa avrebbe voluto vedere vincere Aécio, il cocco di Wall Street.
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