La Stampa 13 ottobre 2014
L’ex giudice istruttore del pool di Giovanni Falcone, Giuseppe Di
Lello – è stato anche parlamentare di Rifondazione comunista –
non condivide quello che lui stesso definisce “il tiro al bersaglio
contro il Capo dello Stato”, accusa di scelte “inquietanti” i
suoi vecchi colleghi della Procura di Palermo, trova “inquietante
che il Capo dello Stato sia diventato il bersaglio di questa
variegata compagnia di giro composta da professionisti dello
spettacolo, del mondo editoriale e anche da magistrati che pensano di
essere depositari ed eredi esclusivi di una tragica e nello stesso
tempo esaltante stagione della vita della nostra Repubblica”.
Intervistato da Guido Ruotolo per la
Stampa ha detto:
«Il processo che si sta celebrando a
Palermo sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra ha un
impianto giornalistico che dal punto di vista tecnico giuridico non
regge».
Osserva Guido Ruotolo che Sabina
Guzzanti chiede scusa agli imputati Totò Riina e Leoluca Bagarella
perché esclusi dalla deposizione dove sarà sentito Giorgio
Napolitano, al Quirinale.
«Sabina Guzzanti, anche lei è in quel
fronte antimafia dei duri e puri che in tutti questi anni ci hanno
spiegato come si fa la lotta la mafia anche a noi, che crediamo di
saperne un po’ di più. Quello che mi addolora è il non capire che
la presenza in videoconferenza di Riina e Bagarella che
interloquiscono con il Capo dello Stato sarebbe stata una pericolosa
legittimazione della mafia».
Giudice, perché il «tiro al
bersaglio» contro Napolitano?
«È inquietante perché Napolitano oggi è il Capo dello Stato e ieri, quando quella stagione si consumò, era esponente di un partito che ha pagato un prezzo altissimo alla lotta alla mafia, dalla strage di Portella delle Ginestre all’omicidio di Pio La Torre».
«È inquietante perché Napolitano oggi è il Capo dello Stato e ieri, quando quella stagione si consumò, era esponente di un partito che ha pagato un prezzo altissimo alla lotta alla mafia, dalla strage di Portella delle Ginestre all’omicidio di Pio La Torre».
Di Lello lei proprio su
questo giornale fu il primo a polemizzare e a interrogarsi sulla
polemica per l’uso nel processo delle conversazioni telefoniche tra
il Capo dello Stato e i suoi collaboratori ed esponenti
istituzionali.
«La stessa Procura di Palermo dal primo momento quelle conversazioni le ritenne irrilevanti ai fini del processo, ma da allora ha preso vigore la campagna contro il Presidente della Repubblica. Distrutte quelle intercettazioni, la “compagnia di giro” ha aggiustato il tiro sul bersaglio, spostandolo sulla lettera che il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, inviò a Napolitano».
In quella lettera, D’Ambrosio esternò il timore di essere stato considerato un ingenuo e «utile scriba» di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi. E la Procura vuole sapere da Napolitano cosa intendesse dire D’Ambrosio.
«Purtroppo D’Ambrosio è morto. Ma perché mai il Capo dello Stato dovrebbe sapere quali fossero questi ipotetici indicibili accordi, quando ha già fatto sapere di non avere null’altro da aggiungere?».
E dunque la sua audizione non aggiungerà nulla al processo?
«E cosa dovrebbe aggiungere? Di sicuro, però, il danno è stato fatto perché il coinvolgimento nel processo del Capo dello Stato è stato interpretato dal popolo antimafia duro e puro come la conferma che Napolitano sia depositario di tutti i segreti della trattativa e, di conseguenza, delle stragi».
A distanza di 22 anni da quella stagione, per lei ci fu la trattativa?
«È indiscutibile che in quel preciso arco temporale che va dalla strage Borsellino agli attentati del ’93-’94 vi siano stati contatti tra uomini delle istituzioni e di Cosa nostra. Ma questi contatti hanno rappresentato un arretramento dello Stato e determinato le stesse stragi con personale responsabilità penale dei singoli indagati?».
Ma a Palermo allora quale processo si sta celebrando e perché non regge?
«Se la tesi di fondo è che le stragi del ’93-’94 e la stessa strage Borsellino sono state provocate dalla trattativa, perché gli imputati non rispondono del reato di strage? Se addirittura l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, era il terminale di questa trattativa perché viene processato solo per falsa testimonianza?».
Naturalmente il suo ragionamento è un paradosso?
«Più che un processo quello che si sta celebrando – mi verrebbe da dire sta andando in onda – è una ricostruzione giornalistica che pone sullo stesso palcoscenico come autori della ricostruzione degli eventi e delle responsabilità, esponenti politici di Forza Italia, della Dc, del Psi. Sembra una commedia pirandelliana. Il fine ultimo di questa trattativa sarebbe stato: benefici carcerari per i mafiosi, l’eliminazione del 41 bis, la fine dei pentiti, il riacquisto dei beni confiscati. I giudici di questo processo non potranno che prendere atto che a distanza di 22 anni, i boss sono ancora tutti in carcere, che il 41 bis addirittura è stato stabilizzato. Che sono state ampliate le possibilità di procedere alla confisca dei beni. E dunque, per lo Stato, le istituzioni, i cittadini questo processo farà tirare un sospiro di sollievo».
«La stessa Procura di Palermo dal primo momento quelle conversazioni le ritenne irrilevanti ai fini del processo, ma da allora ha preso vigore la campagna contro il Presidente della Repubblica. Distrutte quelle intercettazioni, la “compagnia di giro” ha aggiustato il tiro sul bersaglio, spostandolo sulla lettera che il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, inviò a Napolitano».
In quella lettera, D’Ambrosio esternò il timore di essere stato considerato un ingenuo e «utile scriba» di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi. E la Procura vuole sapere da Napolitano cosa intendesse dire D’Ambrosio.
«Purtroppo D’Ambrosio è morto. Ma perché mai il Capo dello Stato dovrebbe sapere quali fossero questi ipotetici indicibili accordi, quando ha già fatto sapere di non avere null’altro da aggiungere?».
E dunque la sua audizione non aggiungerà nulla al processo?
«E cosa dovrebbe aggiungere? Di sicuro, però, il danno è stato fatto perché il coinvolgimento nel processo del Capo dello Stato è stato interpretato dal popolo antimafia duro e puro come la conferma che Napolitano sia depositario di tutti i segreti della trattativa e, di conseguenza, delle stragi».
A distanza di 22 anni da quella stagione, per lei ci fu la trattativa?
«È indiscutibile che in quel preciso arco temporale che va dalla strage Borsellino agli attentati del ’93-’94 vi siano stati contatti tra uomini delle istituzioni e di Cosa nostra. Ma questi contatti hanno rappresentato un arretramento dello Stato e determinato le stesse stragi con personale responsabilità penale dei singoli indagati?».
Ma a Palermo allora quale processo si sta celebrando e perché non regge?
«Se la tesi di fondo è che le stragi del ’93-’94 e la stessa strage Borsellino sono state provocate dalla trattativa, perché gli imputati non rispondono del reato di strage? Se addirittura l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, era il terminale di questa trattativa perché viene processato solo per falsa testimonianza?».
Naturalmente il suo ragionamento è un paradosso?
«Più che un processo quello che si sta celebrando – mi verrebbe da dire sta andando in onda – è una ricostruzione giornalistica che pone sullo stesso palcoscenico come autori della ricostruzione degli eventi e delle responsabilità, esponenti politici di Forza Italia, della Dc, del Psi. Sembra una commedia pirandelliana. Il fine ultimo di questa trattativa sarebbe stato: benefici carcerari per i mafiosi, l’eliminazione del 41 bis, la fine dei pentiti, il riacquisto dei beni confiscati. I giudici di questo processo non potranno che prendere atto che a distanza di 22 anni, i boss sono ancora tutti in carcere, che il 41 bis addirittura è stato stabilizzato. Che sono state ampliate le possibilità di procedere alla confisca dei beni. E dunque, per lo Stato, le istituzioni, i cittadini questo processo farà tirare un sospiro di sollievo».
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