ROBERTO BRUNELLI
La Repubblica 9/10/14
MISTERO A PYONGYANG
All'improvviso Shin chiude gli occhi.
Forse si è addormentato. Davanti a lui c’è una tavola imbandita:
riso con verdure, calamari, noccioline glassate, patate. Ha mangiato
tanto. Perché il cibo è tutto. «Quando hai fame non pensi. A
stomaco vuoto non esiste pensiero, non esiste libertà». Così ci
aveva detto un’ora prima. Ma ora è stanco. Sulle braccia ci sono
ancora le cicatrici di quando, da adolescente, fu torturato dalle
guardie del Campo 14. Il più feroce, il più celebre, il più
grande, il peggiore dei campi di lavoro e reclusione della Corea del
Nord, una specie di abisso di ferocia in mezzo alla dittatura più
misteriosa e reclusa della Terra. Le sue gambe sono lievemente
arcuate, per colpa delle catene a cui venne appeso. Mani da una
parte, piedi dall’altra. Sotto, una tinozza di carboni ardenti.
Shin sentì l’odore della sua stessa carne bruciata.
Alcuni giorni fa Shin Donghyuk ha
parlato alle Nazioni Unite, su invito del segretario di Stato Usa
John Kerry. Il giornalista e scrittore americano Blaine Harden, per
tanti anni firma di punta del Washington Post e poi del New York
Times , ha raccontato la sua storia in un libro, Fuga dal campo 1-4,
che è diventato una specie di caso internazionale, uscito ora anche
in Italia grazie a Codice edizioni. Nascosto tra le montagne e il
fiume Taedong, il Campo 14 è un immenso gulag nel quale vivono,
lavorano e prevalentemente muoiono oltre 50 mila detenuti. L’unico
paragone calzante è quello dei lager nazisti. Solo che questo si
trova a circa 80 chilometri da Pyongyang, dove oggi governa — o
dovrebbe governare — il “supremo leader” Kim Jong-un, coetaneo
di Shin: le due facce della Corea del Nord, dicono in molti. Parla
veloce, Shin. È l’unico prigioniero nato e cresciuto in un campo
nordcoreano che sia riuscito a fuggire. Parlare, oggi, è lo scopo
della sua vita.
Shin, lei è nato nel Campo 14. Fino al giorno in cui è fuggito, a 23
anni, non sapeva niente di quel che c’era “fuori”. Come se
l’immaginava il mondo?
«Non sapevo che ci fosse un mondo,
fuori dai recinti. Nessuno mi raccontava niente, e io comunque non ci
pensavo mai. Non avevo il tempo di pensarci. Si lavorava sempre,
tutto il giorno. Lavori pesanti. Non avevo il permesso di pensare».
Parlando con Blaine Harden, all’inizio
lei non ha voluto rivelare che aveva denunciato il tentativo di fuga
di sua madre insieme a suo fratello. Perché?
«Spiare è la prima delle regole
dentro il campo. Fa parte della lotta per la sopravvivenza. Chi non
denuncia un tentativo di fuga viene fucilato. Chi compie atti
sessuali non autorizzati viene fucilato. Chi ruba viene fucilato.
Spesso, quando ti danno la scelta di prendere botte o perdere la
propria razione di cibo si sceglie di prendere le botte. Mia madre
rubava un chicco di riso al giorno ».
Lei era prigioniero del campo per una
“colpa” commessa dai suoi genitori, vero?
«Io non ho mai saputo perché i miei
genitori stessero nel campo. Dopo alcuni anni di prigionia erano
stati selezionati per essere sposati: una specie di premio di
produttività. Per questo sono nato io. Però non ho ricordi
speciali. Qualche volta sogno mia madre. So che l’ho sognata, ma
sono sogni che poi non ricordo».
Forse perché quando Shin ven-ne fatto
uscire dalla cella in cui era stato tenuto per settimane, più morto
che vivo, fu subito por-tato in un luogo che conosceva be-ne: il
piazzale delle esecuzioni. La prima volta che c’era stato aveva
quattro anni. Ma stavolta quelli sul patibolo erano sua madre e suo
fratello. Prima che l’impiccassero, la madre cercò il suo sguardo.
Lui lo distolse. A suo fratello spararono in testa.
Lei ora crede in una qualche religione,
ha trovato da qualche parte un Dio da pregare?
«Frequento una chiesa cristiana. Però
sto ancora studiando. Sto approfondendo il pensiero religioso di
Gesù. In Corea del Sud per un po’ sono andato in un tempio
buddista. Ma mi sono reso conto che non basta la fede. La gente segue
il cristianesimo, ma nessuno è riuscito ad impedire l’Olocausto».
Cosa intende dire, Shin?
«Intendo dire che per esempio durante
la seconda guerra mondiale si era venuti a sapere dei campi di
concentramento, ma in pochi ci credevano. Non si è passati
all’azione. Questo vale anche per i massacri in Cambogia, in Sudan
o in Kosovo. Dopo, il mondo ha punito i responsabili, ma le vittime
non sono tornate in vita. Furono milioni. La gente cattiva agisce
subito, la gente buona non agisce. Non subito, almeno. Confrontate il
numero dei morti, è sempre la stessa cosa».
Ha un’idea di quello che sarà il suo
futuro?
«Sto facendo tutti questi viaggi...
non so. Non so immaginare il futuro. Ma voglio dire ancora una cosa».
Prego.
«È importante. Poco tempo fa alcuni
politici italiani sono andati a Pyongyang, su invito del regime. Gli
hanno fatto vedere solo cose positive. Questi politici (tra cui Razzi
e Salvini, ndr) sono tornati dicendo che il mio paese è come la
Svizzera. È sbagliato. Per capire cosa succede davvero in Corea del
Nord dovete andare alle stazioni ferroviarie, dove lungo i binari si
trascinano fiumi di bambini, orfani, che muoiono di fame. Dove ci
sono le donne che, per cifre ridicole, vengono vendute ai cinesi".
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