Corriere della Sera 26/10/14
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A Teheran Reyhaneh Jabbari è stata
impiccata al termine di un processo-farsa, colpevole di aver colpito
a morte l’uomo che la stava stuprando. Ci saranno proteste blande,
comunicati misurati, prudenti prese di posizione. O forse niente. Con
l’Iran, nel turbolento scacchiere medio orientale, bisognerà pur
tenere la porta aperta.
I corpi degli impiccati che penzolano
sulle piazze di Teheran vanno cancellati, lo impone la sapienza
diplomatica. I diritti umani sprofondano nell’oblio. Il realismo
politico trionfa. Nessuno verrà in soccorso delle vittime di regimi
sanguinari e oppressivi.
La fine rovinosa delle «primavere»
arabe ha sradicato la difesa dei diritti umani fondamentali
dall’agenda politica dei governi. L’opinione pubblica
internazionale è stanca e impaurita. Dimentica i 230 mila morti in
Siria, e anzi non dissimula nemmeno un certo compiacimento per i
massacri compiuti da Assad: mica vogliamo darla vinta agli sgozzatori
che praticano la decapitazione rituale degli infedeli? Certo che no.
E infatti nessuno obietta se nell’Egitto dei militari, golpisti ma
pur sempre laici, le prigioni della tortura son tornate a riempirsi
con una frenesia persino sconosciuta ai tempi del dittatore Mubarak,
e fioccano le condanne a morte per i membri dei Fratelli musulmani:
mica vogliamo rafforzare gli assassini del fondamentalismo fanatico?
Certo che no. Poi però dobbiamo accettare che uno strato spesso di
ovatta ottunda la percezione di quello che sta accadendo in Pakistan,
vulcano che può esplodere in ogni momento, dove una ragazza
cristiana, Asia Bibi, viene condannata a morte con l’accusa
grottesca di «blasfemia». In Iran hanno anche scatenato la guerra
santa contro le donne che avevano osato assistere a una partita di
volley e sono state arrestate. Facciamo finta di non vedere
l’assurdità. Tra un po’ diremo che bisogna rispettare i costumi
dei popoli, per metterci in pace con la coscienza. In passato
qualcuno si era permesso di stupirsi perché all’Onu la commissione
dedicata ai diritti umani risultava presieduta da un esponente del
regime poliziesco di Gheddafi. Ce ne siamo pentiti: quel tiranno
buffone teneva buone le teste calde, con i metodi che conosciamo. E
ora abbiamo smesso di protestare. E anche di cogliere i risvolti
grotteschi del realismo politico.
L’Arabia Saudita fa parte
della coalizione contro l’Isis: davvero dovremmo indignarci perché
il possesso di un crocefisso o di un rosario, nascosti in casa, è
sufficiente per la condanna a morte di un «blasfemo» cristiano? Il
realismo politico impone il silenzio, l’accondiscendenza, persino
l’appoggio ai regimi che violano senza pudore i diritti umani più
elementari.
Non dobbiamo scandalizzarci se gli scherani di Hamas
ammazzano un po’ di palestinesi con esecuzioni sommarie ed
esponendo per strada i corpi martoriati dei «collaborazionisti»: il
realismo politico ci consiglia di non esagerare con le parole di
condanna, che invece possono essere spese senza ritegno contro
Israele, senza nessuna conseguenza spiacevole per noi. Ma anche se
usciamo geograficamente dal mondo incandescente del fondamentalismo
religioso, la consegna del silenzio sui diritti umani appare
tassativa e intransigente. Il Tibet martoriato, il Dalai Lama che non
bisogna nemmeno accogliere nelle visite ufficiali, i dissidenti in
galera, la censura, le condanne a morte degli oppositori. Temi
molesti, inopportuni, che rischiano di compromettere i buoni affari
con un gigante che è meglio non fare arrabbiare. Su Putin, poi, il
silenzio è diventato un dogma.
Lui sì che conosce il modello
per trattare con i fanatici pericolosi: lo ha sperimentato in
Cecenia, radendo al suolo Grozny. Oggi Putin deve essere blandito, ci
sono ragguardevoli contratti da onorare, figurarsi se è il caso di
chiedere all’autocrate come vengono trattati i dissidenti, i gay,
gli oppositori, i giornalisti che spariscono e non si adeguano alla
stampa di regime. Magari ci dispiace anche, ma non ci conviene
manifestare il nostro civile disappunto perché al peggio non c’è
mai fine e male abbiamo fatto ad affidarci ai ragazzi della
«primavera» e forse ci siamo ficcati nei guai andando a impedire ai
talebani di Kabul le lapidazioni delle donne negli stadi.
È la
legge del realismo. Reyhaneh Jabbari riposi in pace.
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