Corriere della Sera 20/10/14
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Alle undici tutto è pronto per
l’arrivo dell’uomo più minacciato d’Italia. In cima alla
strada, davanti alla pizzeria Da Enzo, quattro pattuglie dei
carabinieri sono in attesa. La notte prima, dalle 23 all’una, gli
uomini e i cani dell’unità cinofila hanno ispezionato i locali.
Subito dopo sono arrivati gli artificieri. Al mattino, poco prima che
la gente cominciasse a riempire la sala, hanno rifatto gli stessi
controlli.
Nel cortile sono schierati 24 poliziotti addetti
all’ordine pubblico. Intorno alla biblioteca comunale si contano
altre 12 vetture delle forze dell’ordine. Ecco la prima delle
quattro macchine della scorta. Una volta superato il cancello della
biblioteca comunale di San Giuseppe Jato scendono gli agenti. Si
guardano intorno. Aprono la porta posteriore della seconda vettura.
Ne esce l’uomo che «putissimu pure ammazzarlo» secondo Totò
Riina, sottoposto a un livello di sorveglianza che si trova un
gradino sopra a quello dei magistrati più esposti e un gradino sotto
a quello riservato al presidente della Repubblica. È un prete.
Sono
quasi due mesi che la vita di don Luigi Ciotti è cambiata. Ieri lo
hanno scoperto in tanti alla marcia della pace Perugia-Assisi, quando
lo hanno visto circondato da uomini in borghese che si guardavano
intorno circospetti. Vicino e al tempo stesso distante dagli altri.
Le chiacchierate del capo dei capi mafiosi durante l’ora d’aria
hanno rivelato un interesse nei suoi confronti che rasenta
l’ossessione. Altri boss, dopo mesi di silenzio parlano di lui. Le
intercettazioni finite sui giornali sono frammenti di un discorso in
divenire. C’è di peggio nelle loro parole. C’è un progetto che
prevede diffamazione e calunnia. In mancanza del tritolo vogliono
seppellirlo con l’infamia. All’inizio di settembre il ministero
dell’Interno ha così deciso di blindare la vita a un ragazzo di
quasi 70 anni che svolge il suo sacerdozio molto lontano, a
Torino.
La Sicilia era scritta sul palmo della sua mano. Ci
torna quasi ogni settimana, per viaggi a tappe forzate dalla
logistica estrema. Quando è sull’isola la scorta di don Luigi
quasi raddoppia, per comprensibili ragioni. Alla sorveglianza di
grado più alto vengono aggiunte altre due vetture e altri quattro
uomini provenienti dalla scorta di Antonio Ingroia.
Quel giorno,
il 23 maggio 1992, si trovava a Palermo per un corso di formazione.
Il primo aereo che decollò da Capaci dopo la strage fu il suo. «Mi
chiesi cosa potevo fare». La risposta arrivò da un volontario del
Gruppo Abele, l’associazione contro le narcomafie da lui creata
cinquant’anni fa. Giancarlo Caselli, un altro con Palermo nel
destino. Le proprietà e i terreni confiscati ai clan, come fossero
un interruttore. Dal male al bene, dall’indifferenza alla presa di
coscienza. Stava per nascere Libera, che oggi contiene altre 6.500
associazioni, il marchio che certifica la perdita di terreno, non
solo figurata, della mafia.
Le minacce sono sabbia
nell’ingranaggio di una vita in perenne movimento. All’inizio di
ottobre era a Lampedusa, poi è tornato a Torino via Malpensa per dir
messa e celebrare un funerale. Poi è volato a Roma per un incontro
istituzionale. Subito dopo è tornato in Sicilia per la lunga
giornata in cui lo aspettavano per consegnargli la cittadinanza
onoraria del paese che fu roccaforte dei Corleonesi. Tre tappe per
600 chilometri. A sera ha preso l’ultimo aereo, il giorno dopo
partecipava alle esequie di un amico. Avanti e indietro, sempre.
Ancora Roma, due volte, ancora Palermo. Infine ieri in Umbria alla
marcia della pace. Ogni volta con un passaggio di consegne, la sosta
nella piazzola di un hotel fuori mano per la staffetta tra scorte
ausiliarie, che affiancano quella ufficiale per seguirlo nel loro
territorio.
A casa sua è peggio. Gli spostamenti brevi sono più
difficili. Quando è a Torino don Luigi viene seguito da altre due
auto. Il protocollo prevede la consegna degli appuntamenti di
giornata e un preavviso di un’ora per qualunque imprevisto, sia un
caffè al bar o una visita in chiesa, con bonifica dei luoghi. Sabato
11 ottobre, ad esempio. Di nuovo a Torino per battezzare il figlio di
un funzionario della questura. Nessuno strappo alla regola. Come in
Sicilia, doppia bonifica, sera e mattina presto. La chiesa piena di
poliziotti era sorvegliata da decine di poliziotti.
San Giuseppe
Jato era il paese di Giuseppe Brusca e di Santino Di Matteo, il
bambino ucciso e sciolto nell’acido dopo una lunga prigionia. Ora
sui terreni che furono di quel boss prospera una delle più grandi
cooperative siciliane. Vino e cibo che va in tutto il mondo.
Sull’etichetta di ogni bottiglia e barattolo c’è scritto da dove
viene, e perché. Nelle intercettazioni Riina parla della «roba»
che era sua. «Ci sono alcune ragioni per cui mi vogliono male.
Abbiamo dimostrato che è possibile fare senza di loro, prendere il
loro patrimonio e renderlo produttivo. La seconda è il nostro sforzo
per creare una coscienza. La mafia teme più le scuole della
giustizia. In Sicilia abbiamo avviato cinquemila progetti didattici.
Infine c’è la nostra scelta di costituirci parte civile nei
processi, fornendo assistenza legale ai testimoni di giustizia.
Assicuro che dà molto fastidio».
La neonata cooperativa citata
proprio ieri da don Luigi come unico antidoto ai Totò Riina di
questo mondo si trova a Castelvetrano, in provincia di Trapani. I
suoi ragazzi gli avevano preparato uno spuntino in un uliveto
bruciato dai mafiosi non proprio entusiasti del passaggio di
proprietà. «L’unica paura è quella di non riuscire a fare le
cose. Più se ne parla, più le famiglie hanno difficoltà a mandare
i loro cari ai nostri appuntamenti. Non sono minacce, è una
strategia». All’improvviso si era sentito un rumore da oltre il
muro di cinta. Il caposcorta e i suoi uomini avevano camminato tra i
rovi ed erano entrati nella proprietà confinante. Pochi giorni
prima, a Lampedusa, qualcuno aveva esploso alcuni colpi di fucile
davanti all’albergo dove dormiva don Luigi. Non si capisce mai se
sono falsi allarmi oppure dell’altro. La vita sotto scorta è una
tortura della goccia cinese. «D’accordo, ma non fare troppo casino
su questa storia. Tanto prendo e parto lo stesso. Ora ti saluto, che
sto salendo sull’aereo».
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