È Renzi che rimarca la portata politica dello scontro che si aperto
con la Cgil. Cerca il momento-Blair ma non gli converrà scivolare in
battaglia identitaria. E nonostante le stupidaggini sulla sparizione del
Pd, è proprio il partito la posta in palio, a quasi un anno dalle
primarie.
Altri, al posto di Matteo Renzi, avrebbero fatto
diversamente. Non sarebbe stato difficile. Mostrare verso la piazza
della Cgil tutto il rispetto necessario, sottolineare l’autonomia
reciproca tra sindacati e partiti, formulare qualche considerazione
sull’importanza del Jobs Act e anche al limite dell’abolizione
dell’articolo 18, lasciare o meno spiragli in vista del confronto tra
governo e confederazioni che riprenderà oggi nella famosa sala Verde di
palazzo Chigi. In breve: attutire per quanto possibile l’impatto del
confronto a distanza tra San Giovanni e Leopolda, tirando diritto sulla
riforma del mercato del lavoro senza rinfocolare le polemiche.
Non si può dire che Renzi abbia rinfocolato. Ma certo il suo modo di
mostrare rispetto verso la piazza sindacale è stato davvero peculiare:
l’ha caricata di significato e valore politico; ha marcato ogni
differenza; ha enfatizzato la polarità tra Roma e Firenze; di più
ancora, ha fissato a sabato 25 ottobre 2014 la data di inizio di un
conflitto politico che, per sua ammissione anzi sollecitazione, potrebbe
finire in qualsiasi modo, anche con una scissione del Pd e la nascita
di nuove formazioni politiche.
Non è un’ipotesi probabile, almeno non finché la parabola elettorale
di Renzi rimane ad alta quota, tant’è vero che tutti gli eventuali
interessati si sono precipitati a escludere l’eventualità. Ma anche
senza considerare l’esito estremo, nel mezzo rimane la volontà del
segretario-premier di condurre lo scontro fino in fondo.
È evidente che Renzi si sente in pieno momento-Blair. Cioè vede
l’occasione e avverte la necessità di suggellare, rendere evidente,
plateale, se possibile definitiva la vittoria della sinistra
modernizzatrice che ha in mente lui, contro la sinistra della tradizione
che cerca di schiacciare sulle caricature dell’iPhone a gettone e della
macchina fotografica digitale con il rullino. Che questa fosse
l’intenzione s’era capito fin da quando l’abolizione dell’articolo 18
aveva ripreso importanza dopo esser stata a lungo definita irrilevante. A
cose fatte, raccontando in futuro questa vicenda, gli storici la
descriveranno probabilmente come una provocazione politica nella quale
la sinistra sindacale e para-sindacale è caduta in pieno.
In questo momento i rapporti di forza sono definiti, la vittoria è a
portata di mano di Renzi. Solo se però rimaniamo sul piano strettamente
politico, e se misuriamo il consenso nel paese e all’interno del Pd
sulle riforme economiche. Perché su un altro piano Renzi rischia
qualcosa di più.
San Giovanni è stata una manifestazione contro la linea del governo
sul tema del lavoro (non contro il governo, non contro tutte le cose che
fa, e secondo diversi cronisti neanche contro Renzi, almeno in molti
partecipanti), e su questo terreno forse perderà. Ma è stata anche –
forse soprattutto – una manifestazione di identità. E qui il
segretario-premier deve stare attento, o meglio deve decidere:
quell’identità sarà residuale e minoritaria ma nel Pd la rispettano
tutti, anche quelli che la sentono lontana. È un’identità costitutiva
della sinistra italiana, anzi della sinistra europea. Contiene
un’istanza di giustizia e di difesa dei derelitti che è del tutto
sproporzionata alle capacità dell’apparato sindacale di incarnarla, e
che però non può neanche accontentarsi di essere declamata nei
collegamenti esterni dei talk show televisivi.
Nella sua giustificatissima battaglia contro i ritardi e le
ossificazioni della sinistra tradizionale, Renzi deve stare attento a
non risvegliare il conflitto identitario, perché naturalmente potrebbe
vincere anche a questo livello, a costo però di mettere in discussione
il Pd e il proprio più grande successo da segretario: aver reso questo
partito una casa aperta e ospitale per molti, se non addirittura
potenzialmente per tutti.
Le polemiche che provano a contrapporre gli imprenditori del palco
della Leopolda agli operai cassintegrati sono paccottiglia
propagandistica, una roba da estremismo anni ’70 che denuncia solo un
drammatico impoverimento di cultura politica. Gli italiani sono molto
oltre tutto ciò, e su queste miserie Renzi fa bene a marciare con gli
scarponi chiodati. Oltre tutto, è stato proprio un manager, Andrea
Guerra, resuscitando peraltro il termine “padroni”, a ricordare quanta
colpa abbiano questi ultimi nella crisi del paese: insomma, a meno di
non volerla ridurre alle personalissime opinioni di Davide Serra, la
Leopolda ha le carte in regola per dirsi dalla parte delle vittime della
recessione. Con la differenza, cruciale rispetto ai tic della sinistra,
di non dare mai spazio al vittimismo ma di voler illuminare le strade
di un riscatto anche individuale, conquistato grazie a merito e
creatività.
Questa capacità di interpretare la sofferenza dandole una prospettiva
di emancipazione concreta, non delegata alle ideologie, è una forza
della presenza di Renzi sulla scena. Per questo lui non avrà alcun
interesse a farsi risucchiare in una resa dei conti identitaria, e terrà
lo scontro con la ricomposta diarchia Camusso-Landini sul piano
dell’efficacia delle misure del governo.
L’ultima annotazione da fare a proposito dell’impatto del sabato romano-fiorentino riguarda il Pd.
È davvero bizzarro che tanti abbiano raccontato e commentato il
confronto a distanza come un unico evento nel quale sprofondava e
spariva il Partito democratico. Evidentemente lo spin proposto alla
vigilia da Rosy Bindi ha trovato degli adepti convinti, e hanno fatto
breccia le tante chiacchiere sul partito della Nazione che resuscita il
centrismo, o sull’assenza di bandiere da una parte o dall’altra
(incredibile, c’è ancora un giornalismo che si appassiona per queste
cose).
In realtà in questo fine settimana è accaduto esattamente il
contrario, come s’è capito nel passaggio più clamoroso (e applaudito)
del discorso conclusivo a Firenze. È stato di nuovo messo il Pd, questo Pd, come posta in palio.
Il discorso di Firenze ha ricordato che prima e oltre dell’opinione
liquida degli italiani, Matteo Renzi ha conquistato il partito. E che se
lo tiene stretto. Chiede ai leopoldini più trasversali di entrarci. Di
fare la tessera. Di imitare Andrea Romano e Gennaro Migliore. Sicché la
bordata più micidiale che tira ai suoi avversari non è generica, ma
molto mirata: non permetteremo al vecchio gruppo dirigente di
riprendersi un partito del 40 per cento per riportarlo al 25.
Attenzione allora, perché chi vuole contrastare Renzi ricade
nell’errore che gli è già stato fatale: lo tratta da estraneo e
usurpatore, senza capire che invece ormai lui è l’incarnazione più forte
proprio dell’orgoglio di bandiera, anche quando le bandiere non ci
sono. Sicché alla fine sono i sedicenti partitisti a ritagliarsi quel
ruolo anti-partito che da sempre suscita tra i militanti fastidio,
insofferenza, condanna.
Tra poco sarà trascorso un anno dalle primarie che consegnarono il Pd
a Matteo Renzi. Sembra un secolo fa, pare di vivere in un altro paese,
invece sono passati meno di dodici mesi. E a quanto pare c’è ancora chi
non ha capito bene che cosa sia successo.
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