Corriere della Sera 02/10/14
Lorenzo Cremonesi
Sono ormai trascorsi dieci giorni
dall’inizio dei raid alleati guidati dagli americani in Siria e
quasi due mesi dall’avvio di quelli in Iraq. Ma i risultati
sembrano scarni. Come si spiega che lo Stato islamico riesca a tenere
botta e persino a rilanciare le proprie offensive su larga parte dei
fronti? La domanda viene spontanea osservando le scene della
battaglia tra milizie curde siriane e guerriglia jihadista sunnita
dalle colline in territorio turco di fronte alla cittadina siriana di
Kobane. «Attaccano ancora per il semplice motivo che manca
coordinamento tra noi curdi siriani e comandi americani»,
rispondevano sino a due giorni fa i combattenti dello Ypg (la milizia
curda). Ieri però per la prima volta i raid Usa hanno colpito le
colonne dello Stato islamico: si contano almeno 87 dei loro uomini
morti e una decina di mezzi distrutti. Eppure, l’attacco continua.
Il pericolo che Kobane cada resta reale. Tanto che i comandi turchi
spostano nuove unità corazzate sulla frontiera e studiano la
fattibilità di «zone cuscinetto» in Siria.
Una spiegazione
più convincente alle capacità di tenuta dello Stato islamico viene
dai militanti dei vecchi gruppi della resistenza siriana contro la
dittatura di Bashar Assad conosciuti due anni fa nella regione di
Aleppo e che oggi vivacchiano di espedienti tra i campi profughi e le
cittadine turche a ridosso del confine. «La forza degli estremisti
sunniti viene dalla debolezza dei loro avversari. Ma, soprattutto,
nasce dalle radici profonde della rabbia popolare sunnita. Una rabbia
esplosa contro gli americani dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003.
In seguito alimentata in modo differente, ma speculare, in Siria e
Iraq. Da una parte, la repressione terrificante della dittatura di
Damasco contro la sua gente ha portato acqua al mulino dello Stato
islamico. Dall’altra, il settarismo del regime sciita a Bagdad ha
metodicamente estromesso i sunniti», dicono a Gaziantep nella sede
dei «Jesh al Mujaheddin», una delle poche milizie non radicali
ancora attive. «Voi occidentali sbagliate quando pensate che lo
Stato islamico sia solo un gruppo di estremisti tagliagole aiutato
dai volontari folli che arrivano dall’estero. Il suo consenso
principale viene piuttosto dai sunniti. I confini della sua forza
corrispondono con la geografia della demografia mediorientale»,
sostiene Nahel Ghadri, che fu uno dei leader dei comitati della
rivolta popolare nella cittadina di Ariha (a ovest di Aleppo). «Ci
sentiamo traditi. Speravamo negli americani. Ma non solo non ci hanno
mai aiutato a defenestrare quel criminale di Assad, come avevano
promesso con la storiella delle linee rosse nel caso avesse usato le
armi chimiche, soprattutto adesso con i loro blitz aiutano
direttamente lo stesso regime fascista che pure dicevano di voler
abbattere. Viene da impazzire!», esclama Mohammad Khader, ex
portavoce di una delle brigate di Jebel Zawya (la regione collinosa
presso Homs).
A seguire gli eventi sul terreno le loro parole
appaiono illuminanti. In Siria i jihadisti cambiano strategie di
combattimento per evitare i raid aerei, si nascondono tra i civili,
ma non si ritirano. In Iraq le loro colonne continuano ad avanzare
verso Bagdad. Negli ultimi due mesi hanno circondato e ucciso
migliaia di soldati regolari iracheni: battaglioni interi sono stati
abbandonati alla loro sorte, privi di cibo, acqua e munizioni. Guarda
caso, i punti di forza dello Stato islamico stanno nelle regioni
sunnite di Ramadi e Falluja. Le maggiori tribù sono con loro:
forniscono uomini, cibo, logistica e legittimità popolare. Ormai
sono a una quindicina di chilometri dalla capitale e mirano ai suoi
quartieri occidentali, dove la maggioranza della popolazione è
sunnita. I media locali dipingono scenari da incubo per il
neo-premier sciita Haider al Abadi. L’esercito non sembra aver
imparato dalle recenti sconfitte. Gli ufficiali corrotti restano
quasi tutti al loro posto. Gli odi settari imperano. I soldati che
avevano disertato in massa tornano a ricomporre le loro vecchie
unità, come nulla fosse stato. Ma loro teste di punta restano le
milizie estremiste sciite, spesso legate a filo doppio ai pasdaran
iraniani, le stesse che massacrarono decine di sunniti dopo la
conquista della cittadina di Amerli (grazie alla copertura aerea Usa)
un mese fa. Unico fronte alleato che segna qualche vittoria tangibile
è quello dei curdi iracheni, i soli ad avere ottimi rapporti con i
comandi americani. Ma anche qui le loro avanzate seguono linee
demografiche. La liberazione della cittadina di Rabia due giorni fa è
stata aiutata dal fatto che nel settore sono situati antichi villaggi
yazidi e curdi. E Mosul, città a maggioranza sunnita per eccellenza,
resta saldamente nelle mani dello Stato islamico.
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