Corriere della Sera 08/10/14
Monica Guerzoni
Finiti nel cul de sac della
fiducia, i dissidenti non hanno via di uscita. Per «senso di
responsabilità verso il Paese» i senatori «democrat» dell’ala
sinistra salveranno il governo e manderanno in soffitta l’articolo
18. Ieri vigilia tormentata del voto di oggi al Senato, con una serie
di riunioni sfociate nella stessa, rassegnata ammissione: votare no
al segretario-premier del Pd sarebbe uno strappo senza possibile
rammendo. E così il dissenso sembra destinato a restare scolpito su
eventuali documenti di bersaniani dialoganti, dissidenti e civatiani,
oltre che sui tabulati: se nessuno ha annunciato un «no» forte e
chiaro, più di un senatore potrebbe svignarsela al momento della
chiama.
Le parole di Corradino Mineo hanno il sapore della
rottura, eppure il senatore civatiano sottolinea di aver usato il
condizionale quando in tv ha detto «mi alzerei e voterei no alla
fiducia, direi a Renzi che lo spettacolo è finito». Ma poi, via
sms, Mineo prende tempo: «Vediamo che succede, deciderò... Ma la
storia che noi usciremmo dall’aula se la sono inventata i
renziani». Eppure è proprio questa la scelta che farebbe Stefano
Fassina, deputato, se oggi il dilemma toccasse a lui: «È una ferita
profonda per il Pd. Sono solidale con i senatori, ma io
uscirei».
Bersani lancia appelli alla responsabilità, intanto
però sulla nuova rivista Ideecontroluce.it avverte: «Se diventiamo
solo un partito di elettori, chiunque può venire a casa nostra a
fare la destra e la sinistra. Attenzione, significherebbe costruire
un peronismo all’europea». Renzi come Perón? C’è anche questo
fantasma nel cielo livido del Pd e c’è la lettera-appello di
Civati al capo dello Stato contro la «prassi deprecabile» di porre
la fiducia su materie «delicate» come il lavoro. Il deputato che
non votò la fiducia a Renzi chiede a Napolitano il «richiamo a un
maggiore rispetto dei ruoli e delle prerogative istituzionali»,
smentisce complotti ma conferma che «alcuni senatori non
parteciperanno al voto».
Gli indiziati sono Felice Casson,
Walter Tocci, Mineo e Lucrezia Ricchiuti, la quale ha detto che
voterà sì soltanto «se l’emendamento conterrà passi avanti»
rispetto alla delega: «Il mio non è un dissenso che può svanire in
24 ore». Altrettanto profondo il disagio di Erica D’Adda: «Se non
si vota la fiducia si deve uscire dal Pd e questo non lo
facciamo».
Per quanto riguarda Felice Casson si è aperto
invece un caso su un altro argomento. Nella giunta per l’immunità
del Senato tutto il gruppo pd ha votato no alla richiesta di utilizzo
delle intercettazioni del senatore Antonio Azzollini (Ncd), bocciando
così la proposta di Casson, che — da relatore — si era detto
favorevole. L’esponente pd si è subito sospeso dal
gruppo.
Tornando alla fiducia, ieri anche Vannino Chiti ha
riunito 14 dissidenti a lui vicini, convincendoli che «la crisi di
governo sarebbe un salto nel buio». Tocci invece non ha deciso, ma
il giudizio che scandisce in Aula non suona come il preludio a un sì:
«Non si è mai cominciato a cambiare verso. Il rottamatore ha
attuato i programmi dei rottamati, di destra e sinistra». Massimo
Mucchetti aspetta il testo, ma è «orientato» al via libera. Luigi
Manconi, pur convinto che la fiducia sia «un gravissimo errore», si
mostra rassegnato a votare con il gruppo. E così Sergio Lo Giudice:
«Mi turo il naso...».
I bersaniani — da Cecilia Guerra a
Miguel Gotor — si sono visti a Palazzo Cenci e Cesare Damiano è
uscito convinto che «nessuno dei nostri metterà in discussione il
governo». Farete un documento? «Non escludo nulla» .
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