Corriere della Sera 05/10/14
Dario Di Vico
Finora l’attenzione di merito sul
Jobs act governativo si è concentrata quasi esclusivamente sulla
riscrittura dell’articolo 18, cannibalizzando così un’altra
scelta di grande discontinuità contenuta nel provvedimento sostenuto
da Matteo Renzi: il salario minimo.
In molti Paesi, europei e
non, è in vigore da tempo, basta pensare allo Smic dei cugini
francesi. In Italia, invece, l’introduzione del salario minimo è
stata vista sempre come fumo negli occhi dai sindacati, gelosamente
attaccati alla tradizione del contratto nazionale. In linea di
principio non c’è contraddizione tra una legge che stabilisca il
salario minimo e un Ccnl stipulato tra le parti, ma in una fase di
forte polarizzazione del sistema industriale finisce per
rappresentare un’alternativa. Le differenze di mercato e di
capacità di creazione di valore non sono più solo tra settori:
passano all’interno dello stesso comparto. Dopo sei anni di Grande
Crisi la distanza tra un’azienda che esporta stabilmente e un’altra
che vivacchia di domanda interna è diventata abissale, come
altrettanto ampia è la differenza tra industrie technology o labour
intensive. Nello stesso settore metalmeccanico ci sono
elettrodomestici e auto, che in virtù del basso valore aggiunto
delle lavorazioni sono molto sensibili al costo del lavoro, ma anche
le macchine utensili, in cui il livello delle paghe non è certo il
principale dei problemi. Con l’introduzione del salario minimo il
contratto nazionale verrebbe fortemente limitato mentre ne uscirebbe
esaltata la contrattazione aziendale. Il minimo stabilito per legge
avrebbe poi un’altra valenza: far emergere il lavoro sommerso e
combattere il caporalato in settori nei quali la rappresentanza
sindacale tradizionale è evaporata e vige la pratica degli appalti
al massimo ribasso. Si pensi, ad esempio, ad un business di grande
rilievo come la logistica dove si è andato creando un far west di
rapporti illegali, Cobas, false cooperative, sfruttamento degli
extracomunitari e ricatto dei lavoratori. Costretti a retrocedere al
datore di lavoro una parte del salario nominale stampato sulla busta
paga. È chiaro che in situazioni come questa il salario minimo non è
la panacea (servono anche tanti ispettori del lavoro!) ma potrebbe
segnalare — specie agli stranieri — che le istituzioni non sono
né cieche né sorde.
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