mercoledì 1 ottobre 2014

Il Partito salvato dai figli contro i padri

Fabrizio Rondolino 
Europa  

Il voto della Direzione segnala la formazione di un nuovo gruppo dirigente, politicamente plurale e generazionalmente affine, che ha deciso di camminare con le proprie gambe e di risolversi i problemi in casa, senza chiedere permesso ai padri
Nella cultura politica comunista l’unità del partito è il valore più importante, l’obiettivo di ciascun militante, il segno di una meritata diversità.
Il partito è l’avanguardia organizzata, lo strumento della rivoluzione: e quanto più la rivoluzione (qualunque cosa questo significhi) s’allontana, tanto più il partito si trasforma da mezzo in fine, e la sua unità cresce d’importanza.
Il centralismo democratico è la forma che il partito dà al proprio dibattito interno per evitare il correntismo e lo scissionismo (vizi capitali dei partiti socialisti) e per preservare la compattezza rivoluzionaria del gruppo dirigente. Il Pci non s’è sottratto a questa regola: e infatti non ha subito scissioni laceranti (se non, in punto di morte, quella di Rifondazione), ma ha inflitto espulsioni purificatrici (da Bordiga al “manifesto”) sempre, naturalmente, in nome dell’unità.
Quel mondo è tramontato per sempre, nel rimpianto di alcuni e con la soddisfazione di molti, e tuttavia qualcosa della cultura politica comunista è ancora presente e operante nel Pd: ma, paradossalmente, nei figli assai più che nei padri. Il dibattito e l’esito della Direzione sull’articolo 18 sono da questo punto di vista molto significativi.
Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani – i “padri” – hanno sferrato un attacco durissimo a Renzi, l’uno accusandolo di non avere idea di ciò che sta facendo e l’altro di applicare ai dissidenti i metodi del Giornale, entrambi con l’intenzione esplicita di aggravare la spaccatura e impedire ogni possibile compromesso. Ma i loro “figli”, Matteo Orfini e Roberto Speranza, non li hanno seguiti, al contrario hanno lavorato fino all’ultimo per una soluzione unitaria, e al momento del voto hanno scelto il sì (Orfini e i Giovani turchi) o l’astensione (Speranza e parte di Area riformista).
La frattura generazionale che è all’origine della spaccatura della minoranza in tre tronconi si può naturalmente spiegare con l’opportunismo (anche questa è una categoria non estranea alla tradizione comunista) dei più giovani e rampanti, o più semplicemente con il loro desiderio, anagraficamente fondato, di voler continuare a far politica nel più grande partito della sinistra italiana. Ma sarebbe ingeneroso, e anche un po’ sciocco, liquidare con un’alzata di spalle il percorso – cominciato all’indomani delle primarie che hanno incoronato Renzi – di Orfini e Speranza.
L’uno è presidente del partito, l’altro capogruppo alla camera: il loro mestiere non è guidare la rivolta o intestardirsi sulle proprie posizioni, ma lavorare perché la pluralità delle opinioni in campo trovi la strada, se non di una ricomposizione, quantomeno di una convivenza pacifica e fruttuosa. «La Ditta – ha detto Renzi nella sua relazione – è una comunità che discute e poi decide e va avanti unita. Non siamo un club di filosofi ma un partito politico».
D’Alema e Bersani non possono non essere d’accordo con questa definizione, e se Orfini e Speranza la fanno attivamente propria è soltanto perché sono cresciuti alla loro scuola, imparando da piccoli che la politica non è mai un fatto personale e che l’unità del partito è un valore superiore all’interesse o all’opinione dei singoli. L’unica vera differenza – e non è una differenza da poco – è che oggi, diversamente dai tempi di Botteghe Oscure, si può discutere, litigare e votare pubblicamente contro. Ma votare contro non significa non impegnarsi perché tutti si comportino poi conformemente alle decisioni prese. Così funzionano gli organismi collettivi, e così deve farli funzionare chi ha responsabilità di direzione politica.
Il voto della Direzione, come già la formazione della segreteria “unitaria”, segnala la formazione di un nuovo gruppo dirigente, politicamente plurale e generazionalmente affine, che ha deciso di camminare con le proprie gambe e di risolversi i problemi in casa, senza bisogno di chiedere permesso ai padri. Dai quali in verità ci si sarebbe aspettato e ci si aspetterebbe un altro comportamento, più simile al tono bonario e conciliante di Franco Marini che agli sfoghi urticanti di D’Alema e Bersani.
Se davvero, come qualcuno va vociferando, spingessero il loro dissenso fino alla scissione, potremmo sconsolatamente concludere che anche il meglio della cultura politica del Pci è andato disperso, e che i maestri hanno tradito gli allievi.

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