Il voto della Direzione segnala la formazione di un nuovo gruppo
dirigente, politicamente plurale e generazionalmente affine, che ha
deciso di camminare con le proprie gambe e di risolversi i problemi in
casa, senza chiedere permesso ai padri
Nella cultura politica comunista l’unità del partito è
il valore più importante, l’obiettivo di ciascun militante, il segno di
una meritata diversità.
Il partito è l’avanguardia organizzata, lo strumento della
rivoluzione: e quanto più la rivoluzione (qualunque cosa questo
significhi) s’allontana, tanto più il partito si trasforma da mezzo in
fine, e la sua unità cresce d’importanza.
Il centralismo democratico è la forma che il partito dà al proprio
dibattito interno per evitare il correntismo e lo scissionismo (vizi
capitali dei partiti socialisti) e per preservare la compattezza
rivoluzionaria del gruppo dirigente. Il Pci non s’è sottratto a questa
regola: e infatti non ha subito scissioni laceranti (se non, in punto di
morte, quella di Rifondazione), ma ha inflitto espulsioni purificatrici
(da Bordiga al “manifesto”) sempre, naturalmente, in nome dell’unità.
Quel mondo è tramontato per sempre, nel rimpianto di alcuni e con la
soddisfazione di molti, e tuttavia qualcosa della cultura politica
comunista è ancora presente e operante nel Pd: ma, paradossalmente, nei
figli assai più che nei padri. Il dibattito e l’esito della Direzione
sull’articolo 18 sono da questo punto di vista molto significativi.
Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani – i “padri” – hanno sferrato un
attacco durissimo a Renzi, l’uno accusandolo di non avere idea di ciò
che sta facendo e l’altro di applicare ai dissidenti i metodi del
Giornale, entrambi con l’intenzione esplicita di aggravare la spaccatura
e impedire ogni possibile compromesso. Ma i loro “figli”, Matteo Orfini
e Roberto Speranza, non li hanno seguiti, al contrario hanno lavorato
fino all’ultimo per una soluzione unitaria, e al momento del voto hanno
scelto il sì (Orfini e i Giovani turchi) o l’astensione (Speranza e
parte di Area riformista).
La frattura generazionale che è all’origine della spaccatura della
minoranza in tre tronconi si può naturalmente spiegare con
l’opportunismo (anche questa è una categoria non estranea alla
tradizione comunista) dei più giovani e rampanti, o più semplicemente
con il loro desiderio, anagraficamente fondato, di voler continuare a
far politica nel più grande partito della sinistra italiana. Ma sarebbe
ingeneroso, e anche un po’ sciocco, liquidare con un’alzata di spalle il
percorso – cominciato all’indomani delle primarie che hanno incoronato
Renzi – di Orfini e Speranza.
L’uno è presidente del partito, l’altro capogruppo alla camera: il
loro mestiere non è guidare la rivolta o intestardirsi sulle proprie
posizioni, ma lavorare perché la pluralità delle opinioni in campo trovi
la strada, se non di una ricomposizione, quantomeno di una convivenza
pacifica e fruttuosa. «La Ditta – ha detto Renzi nella sua relazione – è
una comunità che discute e poi decide e va avanti unita. Non siamo un
club di filosofi ma un partito politico».
D’Alema e Bersani non possono non essere d’accordo con questa
definizione, e se Orfini e Speranza la fanno attivamente propria è
soltanto perché sono cresciuti alla loro scuola, imparando da piccoli
che la politica non è mai un fatto personale e che l’unità del partito è
un valore superiore all’interesse o all’opinione dei singoli. L’unica
vera differenza – e non è una differenza da poco – è che oggi,
diversamente dai tempi di Botteghe Oscure, si può discutere, litigare e
votare pubblicamente contro. Ma votare contro non significa non
impegnarsi perché tutti si comportino poi conformemente alle decisioni
prese. Così funzionano gli organismi collettivi, e così deve farli
funzionare chi ha responsabilità di direzione politica.
Il voto della Direzione, come già la formazione della segreteria
“unitaria”, segnala la formazione di un nuovo gruppo dirigente,
politicamente plurale e generazionalmente affine, che ha deciso di
camminare con le proprie gambe e di risolversi i problemi in casa, senza
bisogno di chiedere permesso ai padri. Dai quali in verità ci si
sarebbe aspettato e ci si aspetterebbe un altro comportamento, più
simile al tono bonario e conciliante di Franco Marini che agli sfoghi
urticanti di D’Alema e Bersani.
Se davvero, come qualcuno va vociferando, spingessero il loro
dissenso fino alla scissione, potremmo sconsolatamente concludere che
anche il meglio della cultura politica del Pci è andato disperso, e che i
maestri hanno tradito gli allievi.
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