Corriere della Sera 07/02/15
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Si comprende l’ottimismo sui numeri
del governo al Senato, che Matteo Renzi ostenta. Non è soltanto la
migrazione della pattuglia di Mario Monti da Scelta civica al Pd: un
passaggio che ha il colore dell’opportunismo ma chiude una
parentesi politicamente già finita, e formalizza un’appartenenza
affidata finora solo al voto favorevole. La vera riserva di consensi
parlamentari, per una coalizione che a Palazzo Madama ha dovuto
faticare più volte per raggiungere la maggioranza di 161 voti,
arriva da spezzoni dell’opposizione. Spunta tra i frammenti espulsi
dal Movimento 5 Stelle; e, sul versante opposto, da «costole» del
centrodestra ansiose di stare al governo.
Sono una ventina di
senatori sui quali Palazzo Chigi ha giustamente puntato molte delle
sue speranze di approvare le riforme. Porterebbero l’area della
maggioranza oltre la soglia di 190, garantendo margini di sicurezza
finora inimmaginabili. C’è già la parola che dovrebbe sublimare
questa operazione: «stabilizzatori». Parlamentari eletti per
combattere il governo, e ora pronti a puntellarlo per evitarne la
crisi. L’operazione sa di trasformismo: quella pratica tutta
italiana, inaugurata nel 1883 da Agostino Depretis e basata sulla
cooptazione nelle maggioranze di schegge dell’opposizione; e
replicata l’ultima volta tra il 2008 e il 2011 dal governo
Berlusconi.
Fu giustamente criticata dal Pd, che nei
«responsabili» di allora vedeva gli eredi di Depretis; e difesa da
FI, che legittimava l’arruolamento come un modo per risarcire
Berlusconi della perdita dell’appoggio di Gianfranco Fini. Adesso,
la manovra viene attaccata da FI e da Beppe Grillo, mentre nel Pd si
tende a difenderla in nome dell’interesse dell’Italia a
completare le riforme. Spettacolo discutibile, che riflette la
scomposizione del sistema dei partiti e lo sgretolamento di alcuni:
un sottoprodotto prima delle elezioni
del 2013, con un Parlamento
spezzato in tre tronconi; poi dell’arrivo di Renzi.
La domanda
è quanto tutto questo rafforzerà davvero la coalizione Pd-Ncd; e se
la terrà al riparo dai ricatti di piccole minoranze che alla fine
furono tra le cause della caduta di Berlusconi nel 2011. Certo, i
cosiddetti «stabilizzatori» offrono a Palazzo Chigi un supplemento
di forza contrattuale. Il coltello del patto del Nazareno tra il
premier e l’ex premier sarebbe sempre più nelle mani di Renzi. In
più, l’idea di un governo col vento in poppa viene accreditata
dalla corsa di semi-oppositori nell’orbita del potere. E si
alimenta la narrativa di un M5S che perde pezzi.
Eppure, il
saldo dell’operazione potrebbe risultare assai più controverso di
quanto appaia. Intanto, la trasparenza dei rapporti parlamentari e
della dialettica governo-opposizione viene intorbidita per puri
calcoli di potere. E gonfiandosi con innesti di formazioni
avversarie, la maggioranza finisce per confermare la sua necessità
di ricorrere ad un aiuto esterno. Non si vede una grande operazione
politica dietro quanto sta avvenendo. Al massimo, un surrogato
raccogliticcio di quel patto del Nazareno che l’elezione del capo
dello Stato ha scompaginato.
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