Corriere della Sera 23/02/15
Michele Ainis
Magari dura poco. Magari fra qualche
tempo sfoggerà un eloquio torrenziale, costringendoci ai tappi nelle
orecchie. Ma intanto la cifra di Sergio Mattarella, in queste sue
prime settimane al Quirinale, si riassume in una parola muta: il
silenzio. Un unico intervento ufficiale (al Csm) registrato sul sito
web del Colle, dopo il discorso d’insediamento. E nel frattempo
partecipa silente alla celebrazione dei Patti lateranensi; annunzia
l’apertura quotidiana del Palazzo in cui dimora, dettando cinque
frasi secche come telegrammi; s’affaccia a una cerimonia in ricordo
di Bachelet, ma resta ancora una volta silenzioso; commemora le
foibe, parlando per meno d’un minuto; riceve le opposizioni irate
dopo il voto sulla riforma costituzionale,
senza concedere nessuna
dichiarazione alle agenzie.
Tutto qui. Peraltro in sintonia con
lo stile di un uomo che dal 2008 aveva rilasciato un’unica
intervista. O che salutò gli italiani, nel giorno dell’elezione,
evocandone difficoltà e speranze con un soffio di voce: 15 parole,
su cui si riversarono 15 quintali di commenti. Sarà che i siciliani
sono di poche parole. Tuttavia quel silenzio, lassù dal Colle,
rimbomba come un tuono. E a suo modo t’inquieta, mentre attorno la
gente non smette di vociare. Infine t’interroga, ti rivolge una
domanda che rimane poi senza risposta. Che cos’è, infatti, il
silenzio? La più perfetta espressione del disprezzo, come diceva
Bernard Shaw? O l’albero da cui pende la pace, secondo l’aforisma
di Schopenhauer?
Sennonché la domanda è ancora un’altra. E
investe le istituzioni, più che le persone. Giacché incrocia una
facoltà di cui i predecessori di Mattarella hanno fatto uso e abuso:
il potere d’esternazione. Una pioggerella d’interviste, note di
stampa, discorsi ufficiali, comunicati, conferenze, messaggi
televisivi, allocuzioni. Cossiga ne inanellò 120 nel 1990, 170 nel
1991, 200 nel 1992. Ma il pioniere fu Pertini, da allora in poi
emulato in lungo e in largo. Non era così, in origine. Nel suo
Scrittoio del Presidente , Luigi Einaudi teorizzò il carattere
privato, anziché pubblico, del pensiero presidenziale. Un’attività
di consulenza informale verso il governo e il Parlamento, sottratta
allo sguardo degli astanti. E i costituzionalisti, per una volta,
cantavano all’unisono. Nel 1951 Guarino sosteneva che il presidente
non potesse appellarsi all’opinione pubblica, salvo i messaggi di
circostanza, ma sempre per iscritto e con la controfirma del governo.
Nel 1958 Crisafulli reputava la controfirma doverosa anche per gli
interventi orali. Mentre Barile ragionava sulla controfirma tacita:
quando il presidente s’accosta a un microfono senza chiedere
permesso, o il governo lo bacchetta, oppure vuol dire che è
d’accordo. Insomma, chi tace acconsente, ma è molto meglio se tace
il presidente.
Che cosa resta, adesso, di quelle antiche tesi?
La Costituzione è sempre uguale, ma da trent’anni vige la regola
contraria. Il potere d’esternazione è diventato l’arma più
visibile e potente di cui dispone il Quirinale, il megafono d’istanze
collettive, la frusta con cui l’uomo del Colle richiama le altre
istituzioni ai propri adempimenti. Qui c’entra, senza dubbio, la
funzione che la nostra Carta assegna al capo dello Stato. Se lui
rappresenta l’unità nazionale — scriveva Paladin nel 1986 —
dovrà giocoforza collegarsi all’opinione pubblica, perché
altrimenti rappresenterebbe il nulla. Ma c’entra soprattutto un
elemento di rottura fra il prima e il dopo della nostra storia
costituzionale: la crisi dei partiti. È questa crisi che ha allevato
l’esigenza di un’autorità morale, in grado di colmare il vuoto
lasciato dai partiti. E non a caso la logorrea presidenziale erompe
durante gli anni Ottanta, quando si manifestano le prime avvisaglie
della crisi. Che tuttavia non è affatto conclusa; semmai, si è
incrudelita.
Da qui l’ennesima domanda. Forse gli ultimi
presidenti hanno parlato troppo, e troppo spesso si sono esercitati
in una recita dell’ovvio; le parole andrebbero spese con misura,
soppesandole una ad una. Ma quanto può essere utile un presidente
taciturno? Se quest’ultimo incarna — come diceva Piero
Calamandrei — la viva vox Constitutionis , dovrà comunque far
risuonare la sua voce. Magari applicando la ricetta di un filosofo,
anziché di un costituzionalista. Wittgenstein: «Su ciò, di cui non
si può parlare, si deve tacere». Ma sul resto no, parliamone.
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