PAOLO BERIZZI
La Repubblica 20 febbraio 2015
Il Califfato ha il suo
“esercito”, con gerarchie carriere, stipendi e un consiglio
militare L’antiterrorismo europeo ha ricostruito l’organizzazione
e i ruoli dei guerriglieri uniti sotto la bandiera della jihad
Se combatti sei mesi ottieni il
punteggio più alto. Se sei un foreign fighter e prendi in sposa una
donna dei Paesi del Califfato lo raddoppi. E hai diritto a una
licenza di tre, quattro, cinque giorni. Rilasciata da un ufficio
permessi con tanto di timbro dell’Is: un bollino nero con
all’interno il cerchio bianco che è il sigillo del profeta e la
scritta della shahada, la professione di fede dell’Islam (come la
bandiera). Il congedo viene concesso dopo un mese ininterrotto di
conflitto. Un lasciapassare - preferibilmente nuziale, perché così
richiedono i capi miliziani - prima di tornare a sparare e a versare
sangue. Tanto più uccidi e ferisci e ti ferisci, tanto più il pegno
di fedeltà alla jihad, già contrattualizzato con una diaria di 100
dollari al giorno, sarà rinsaldato sul campo. L’Is non è soltanto
quello che vediamo: l’orrore e la rappresentazione mediatica dei
prigionieri decapitati, le gabbie infuocate, i nemici portati in fila
su una spiaggia e sgozzati. C’è anche una “normalità”
nascosta, interna. Forse altrettanto sconvolgente. È quella del suo
esercito. Che avendo per ora ancora una dimensione «paramilitare »,
come spiegano gli esperti, è più indicato chiamare milizia. La
milizia di un gruppo terroristico in espansione. Che ambisce a
presentarsi al mondo come una realtà “statuale”.
Attraverso fonti dell’Antiterrorismo
europeo e altre fonti impegnate direttamente nei territori siriani e
iracheni dove ha base il Califfato, Repubblica ha avuto accesso a
informazioni e documenti esclusivi. Raccontano, per la prima volta da
un punto di vista dell’organizzazione militare, come l’Is
(acronimo di Stato islamico) gestisce i suoi combattenti. Sia quelli
“locali” - siriani, iracheni, yemeniti, libici - sia i
guerriglieri stranieri che partono dall’Europa e raggiungono le
terre della bandiera nera attraverso la Turchia rispondendo alla
dawa, la chiamata alle armi della jihad. Perché - spiega Paolo
Maggiolini, esperto di radicalismo islamico e ricercatore dell’Ispi
(Istituto per gli studi di politica internazionale) - «la
composizione delle milizie Is è sempre più eterogenea. Così come i
suoi armamenti. Che provengono da un’ottantina di Paesi (in primis
Usa per via della guerra irachena, Russia attraverso fuoriusciti
dall’esercito siriano, e Francia)».
Sono trentamila i miliziani jihadisti,
secondo stime Cia di fine 2014, attualmente arruolati con l’Is.
Come vengono trattati? Che cosa ricevono in cambio del loro
sacrificio sul campo, del contributo all’avanzata
dell’autoproclamato Stato del califfo Abu Bakr Al Baghdadi? Come
sono valutati e istruiti da chi ha il compito di organizzare le
piccole unità (20-30 uomini, quattro pick-up con armi) che sono
tornate a essere il modello “strutturale” dei miliziani del
terrore?
Partiamo dai soldi. Al netto del
«fattore motivazionale religioso», la diaria di guerra della jihad
corrisponde, proporzionalmente, a meno della metà di quella di un
esercito “normale”. Per dire: israeliano, americano, o francese.
Sebbene fonti statunitensi abbiano messo in circolo in questi mesi
voci di indennità giornaliere da 200 dollari, in realtà la “paga”
media che il Califfato riconosce ai suoi guerriglieri - secondo
autorevoli fonti dell’Antiterrorismo di Bruxelles - si aggira tra
gli 80 e i 120 dollari. Una media ragionevole può essere fissata a
100 dollari. «La cifra è da intendersi come un valore che tenga
conto dei diversi ruoli e competenze -- spiega un investigatore
impegnato da tempo sullo scacchiere della prevenzione anti Is - da
chi svolge semplici operazioni sul campo, a chi partecipa a azioni
più importanti come l’eliminazione di un leader avversario o
attentati di diverso tipo. Può essere un’autobomba che esplode o
una strage in grande stile».
Tre milioni di dollari. Tanto costa,
ogni giorno, la milizia del Califfato (calcolando la sola voce
combattenti). Un miliardo di dollari l’anno. Inutile stare a
avventurarsi nel ginepraio delle fonti di finanziamento: petrolio,
traffici illeciti tra cui tratta di esseri umani e vendita e
stoccaggio di droga, oltre al resto. Più interessante capire quanto
“rende” un jihadista. Turni di sedici ore al giorno. Sette giorni
su sette. Un mese di servizio continuativo. Poi, a seconda della
valutazione espressa dai responsabili incaricati dai “colonnelli”
del consiglio militare, la licenza: tre, massimo cinque giorni. C’è
un ufficio licenze che vidima il lasciapassare. Che autorizza il
guerrigliero a allontanarsi dal fronte. I tentativi di defezione sono
severamente puniti: a volte anche con la morte. «Aiutatemi, voglio
tornare a casa». Come non ricordare le lettere dei giovani jihadisti
“mammoni”, un centinaio quelli pentiti tra i 1.100 foreign
fighters francesi partiti per Siria e Iraq, pubblicate a dicembre
scorso da Le Figaro.
«Ma la maggior parte dei guerriglieri
che vanno là sanno bene le regole di Is. Chi si arruola non ne esce
più. Molti vengono da situazioni di difficoltà personale o
addirittura di disperazione. E là nella jihad trovano una
realizzazione». Il reporter veneto Ivan Compasso, già
corrispondente da Medio Oriente, Siria e Libano per Radio Sherwood, è
autore di un documentario sull’assedio di Kobane, dove è entrato
grazie a un trafficante di uomini e a alcune centinaia di dollari. «I
capi favoriscono i matrimoni tra combattenti e donne del posto.
L’avanzata propagandistica di Is passa anche dalla composizione
sociale: at- traverso nuove unioni familiari».
Il miliziano che decide di sposarsi è
autorizzato a oltrepassare i confini del sedicente Stato islamico. Ci
sono appositi permessi timbrati. Altri certificati vengono emessi per
chi si ferisce in battaglia. Is ha i suoi medici, i suoi ospedali, i
suoi presidi sanitari. Sono professionisti siriani e iracheni
convertiti, spontaneamente o forzatamente, alla jihad. Finiti sotto
il cappello della bandiera nera. Perché in quella «flessibilità»
che l’analista Paolo Maggiolini definisce «apparentemente
frammentaria», non proprio tutto, ma molto, anche i dettagli, passa
sotto il controllo minuzioso delle gerarchie del Califfato. «Cambiano
forma continuamente, e anche qui sta la loro abilità. Ma
l’impostazione che hanno dato alla struttura terroristica è
rigorosa e metodica».
Come funziona la valutazione dei
miliziani? Quali sono i criteri con cui sono “pesati”? Esiste un
protocollo. Chiamiamolo pure, per semplificare, un codice militare. I
luogotenenti dei due uomini a cui Al Baghdadi ha affidato
l’organizzazione e il controllo militare di Siria e Iraq -
rispettivamente Abu Ali Allambari e Abu Muslim al Turkmani - lo hanno
calato nei territori ritenendolo un modo semplice ed efficace per la
gestione della task force: che siano battaglioni o piccole unità
operative non importa. L’esistenza del codice è provata da
documenti timbrati Is. E confermata dall’Antiterrorismo europeo. Il
codice va a punteggio. Ci sono cinque criteri di valutazione. Ruolo.
Pegno di fedeltà. Anzianità. Rendimento in battaglia. Ferimenti
subìti (con eventuale inabilità bellica che però deve essere
certificata da ospedali o centri medici del Califfato). Il punteggio
massimo per ogni criterio è di 6 punti. Il guerrigliero lo ottiene
combattendo per un periodo di almeno sei mesi. Se, come detto, specie
nel caso dei foreign fighter, si sposa con una donna locale,
raddoppia il punteggio (6+6). Il ferimento in battaglia è
considerato ovviamente una medaglia: 3 punti. Così come la giovane
età (se il “soldato” ha meno di 20 anni). Ragiona una fonte
dell’Antiterrorismo: «Calcoliamo le perdite dovute
all’intensificazione degli attacchi aerei. E però anche i nuovi
reclutamenti di questi mesi. È vero, questo “esercito” ha ancora
una dimensione paramilitare. Ma chi lo gestisce riesce a tenere molto
alto l’aspetto motivazionale».
Possibile che un combattente venuto
dalla Cecenia o dal Belgio, dalla Francia o dall’Inghilterra, trovi
la forza di riempire il “pallottoliere” dei punti in battaglia
così? Affermarsi agli occhi dei capi delle milizie jihadiste senza
altre motivazioni che non siano la “liberazione” dall’Occidente
oppressore e il verbo sacro della Shahada ( «testimonio che non c’è
divinità se non Dio - Allàh - e testimonio che Muhammad è il suo
Messaggero»)? Forse no. Una delle spiegazioni alternative possibili
sta in alcune immagini che pubblichiamo. Documentano altro. Coi suoi
uomini mandati al macello (o a provocarlo) Is è generoso. A chi
combatte vengono fornite droghe: soprattutto sintetiche. Anfetamine e
metanfetamine. E cocaina. Come in tutti i conflitti dove occorre
essere lucidamente aggressivi. Dove bisogna avanzare occupando nuovi
territori e cercando di sottomettere la popolazione.
Oltre a carte di credito (ma la diaria
viene consegnata prevalentemente in contanti), telefoni cellulari con
numeri consistenti di sim card, permessi accordati e punti
“validati”, l’equipaggiamento - diciamo - extramilitare del
jihadista comprende un’altra voce. Il viagra. Che c’entra? Perché
distribuire ai terroristi la pillola blu dell’amore in un teatro di
atrocità dove si falciano teste e si bruciano corpi da esibire al
mondo?
Il viagra serve per gli stupri. Le
donne dei paesi e delle città conquistate vengono violentate come
segno del passaggio di Is. Lo prevede il decalogo dell’orrore: con
dei distinguo. Le più attraenti vengono fatte schiave e poi vendute.
Le altre stuprate e uccise. «Sono avanzati così, verso Kobane -
ricorda Ivan Compasso - però lì hanno trovato la strenua resistenza
da parte dei miliziani curdi di Wpj e Wpg. Le donne non solo non si
sono fatte violentare ma hanno imbracciato il kalashnikov difendendo
la loro città e riuscendo infine a prevalere».
Soldi, droga, promozioni, matrimoni
combinati. Oltre alla promessa della gloria eterna per la morte
“nella jihad”. Ma non sempre è così. Areeb Majeed, 23 anni,
ingegnere indiano. La sua vita a fianco dei miliziani dell’Is non
era nemmeno lontanamente ciò che si era immaginato: niente
preghiere, nessuna battaglia da combattere in prima linea. Solo turni
a pulire bagni. Ha preso il suo zaino e è tornato a Mumbai. Ad
aspettarlo c’era la National Investigation Agency indiana che lo ha
arrestato per terrorismo. Fanatici, folli. Pentiti. Come Areeb ce ne
sono tanti. Molti di più sono quelli che partono e non tornano.
Perché ormai è tropo tardi. È la firma di morte del Califfato
nero.
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