Corriere della Sera 10/02/15
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Tutto lascia credere che l’elezione
del presidente della Repubblica, avendo mandato all’aria il
cosiddetto patto del Nazareno, abbia posto fine a quella strategia
dei «due forni» sulla quale il governo Renzi ha fin qui potuto
contare: cioè l’usodi maggioranze parlamentari di volta in volta
diverse, includenti oppure no Forza Italia, a seconda dei
provvedimenti da votare.Il che, tuttavia, non ha certo cancellato
quello che è forse l’elemento chiave che nel nostro sistema
politico nato nel 1994 assicura fisiologicamente, come un fatto
abituale, un grosso vantaggio competitivo alla Sinistra rispetto alla
Destra. Beninteso, ve ne sono parecchi, di questi elementi
fisiologici di preminenza: il fatto, tanto per cominciare, che la
Sinistra ha dietro di sé settori della società civile più compatti
e in certo senso più strategici (ad esempio i media e la cultura);
che può contare in linea di massima su una maggiore motivazione, e
quindi fedeltà, del proprio elettorato; che essa ha maggiore
familiarità e conoscenze con personalità e circuiti politici
internazionali. Ce n’è uno però, come dicevo, più importante
degli altri. Questo: la Sinistra, quandoè al governo, sa e può
fare,pur se entro certi limiti e per intenderci alla buona, politiche
sia di sinistra che di destra, dal momento che sa che anche in questo
ultimo caso conserverà comunque i propri voti, e in più attirerà
quasi certamente voti dal campo avversario. La Destra invece no: essa
sa e può fare (quando pure ci riesce) solo politiche di destra; e
dunque al massimo può conservare il bacino elettorale suo proprio
non potendo tuttavia sperare di ampliarlo di molto.
Nella
Seconda Repubblica ha funzionato così. Specialmente, come dicevo
sopra, per effetto del diverso grado di fedeltà e di senso di
appartenenza — o se si preferisce di «laicità» — che esiste in
Italia tra il «popolo» di sinistra e quello di destra. Anche se è
vero che in compenso la Destra gode del vantaggio di partenza di
rappresentare socialmente la maggioranza del Paese. Sta di fatto che
nel gioco politico iniziatosi nel ’94 mentre la prima riesce a
disporre di due strade la seconda è sembrata sempre capace di
percorrerne una sola.
Di tutto ciò, come ha mostrato ieri su
queste colonne Michele Salvati, l’azione finora svolta da Matteo
Renzi è il massimo esempio — ma non il solo: negli enti locali i
casi sono moltissimi — di quanto sto dicendo. Pur con vari mal di
pancia perché di certo in contrasto con molte sue premesse, la
Sinistra renziana, infatti, può fare liberalizzazioni, riformare la
Costituzione, cancellare privilegi nel mercato del lavoro, prendere
di petto i sindacati, invocare inchieste e castighi sui vigili
fannulloni di Roma, dare un’immagine di sé insomma (non importa
che poi la realtà sia talvolta un’altra) diversa da quella sua
tradizionale, e così facendo ricevere un gran numero di consensi
pure dal centro e dalla destra. Che cosa è stata capace di fare
invece di analogo in senso opposto nei suoi anni d’oro la
Destra?
Certo, ha pesato molto la leadership berlusconiana, i
cui limiti sono divenuti presto evidenti. Specialmente la sua scarsa
determinazione e la sua inettitudine a tenere insieme la maggioranza
e a guidarne l’azione di governo. Che infatti è apparsa fin da
subito priva di un riconoscibile orientamento generale, di un
qualunque disegno, sfilacciata in mille provvedimenti dettati
dall’emergenza o da puri interessi particolari. La conclusione è
stata che nei loro lunghi anni di governo, Berlusconi e i tanti che
erano con lui non sono riusciti a trasmettere al Paese l’idea di
che cosa potesse voler realmente dire un programma politico di
destra, quali principi — se mai c’erano — essa mirasse a
realizzare. Tanto meno — figuriamoci! — Berlusconi e i suoi
(anche quelli che poi lo hanno abbandonato) sembrano aver mai pensato
di spingersi su una strada programmatica che potesse apparire «di
sinistra».
Questo è forse il principale problema che il
tramonto dell’ex premier lascia in eredità alla sua parte. Se la
Destra vuole tornare ad essere elettoralmente competitiva deve
prefiggersi una linea che sia riconoscibilmente alternativa a quella
della Sinistra, naturalmente, ma che al tempo stesso sappia
interpretare anche alcune esigenze di fondo dell’ elettorato di
quest’ultima. Ciò sarà possibile, io credo, ma solo a una
condizione.
Una condizione che si spiega con la storia
particolare del nostro Paese e delle sue culture politiche. Tra le
quali quella liberal-democratica nei fatti si è sempre mostrata
fragile, poco radicata e soprattutto incapace di sorreggere vaste
ambizioni. Altrove sarà diverso, è certamente diverso, ma in Italia
— come del resto in molti altri Paesi dell’Europa continentale —
una sostanziale contaminazione della Destra moderata con punti
programmatici diversi dai propri, i quali guardino verso sinistra, è
possibile solo se la Destra riesce a integrare dentro di sé,
stabilmente — non già in modo estrinseco sotto forma di fragili
accordi di vertice che lasciano il tempo che trovano — la cultura
del cattolicesimo politico.
Berlusconi ha pensato che fosse
sufficiente un’alleanza con le gerarchie ecclesiastiche all’insegna
di una strumentale condivisione di «valori irrinunciabili» (a lui e
al suo ambiente peraltro del tutto estranei). Ma evidentemente non di
questo si tratta. Bensì di fare i conti con quel lascito di idee e
di propositi che vengono da una lunga storia e che hanno alimentato
un’esperienza che è stata decisiva per la vicenda della democrazia
italiana.
Altrimenti, per una Destra che oggi miri a contrastare
l’egemonia renziana l’alternativa è una sola: quella di puntare
spregiudicatamente su un massiccio smottamento ideologico-emotivo
delle masse (popolari e non) verso particolarismi anarcoidi, verso
forme di xenofobia e di antieuropeismo radicali. È la via attuale
della Lega: una via tenebrosa e senza ritorno.
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