Corriere della Sera 19/02/15
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Nella società moderna si può notare
una crescente pluralizzazione della vita: specializzazione, divisione
del lavoro, diversità di metodi. L’affluenza di metodi teologici
diversi, del pluralismo interno alle discipline particolari, dei
presupposti storici ed ermeneutici del contesto socioculturale
configura, in teologia, il fenomeno del pluralismo, il quale non
soltanto permette molte e diverse sintesi, ma anche, e di frequente,
suggerisce una tentazione di carattere sincretistico: si fanno
convivere e si mettono d’accordo conoscenze e postulati che
derivano da ambiti diversi e finanche contrari. Su questa base si
pone il problema di come si possa conservare la necessaria unità di
confessione della fede accanto a un pluralismo coltivato con tanta
profusione.
La soluzione di questo problema è esposta anche a
esiti inadeguati. Da una parte, c’è l’errore di voler ridurre
tutto a un denominatore comune, cosa che, in fondo, implica che la
pluralità venga considerata una realtà negativa.
In questo caso,
il primato assoluto delle forme di confessione della fede rispetto
alla missione costante della loro traduzione sarebbe tale da generare
uno spirito di reazione, di conformismo, di ghetto, di integrismo
violento, sicché la teologia rinuncerebbe alla sua missione
creativa. Se si seguisse questa opzione, verrebbe soppressa la
necessaria differenza tra unità di confessione e legittima diversità
di spiegazione teologica; ne risulterebbe un’unità morta,
artificiale, opprimente e paralizzante rispetto all’impulso
missionario. Le idee subentrano alle persone e si apre la strada
all’ideologia.
Dall’altra parte, il pluralismo non sembra
così inoffensivo e neutrale come alcuni lo considerano a prima
vista. Se infatti giungesse a non preoccuparsi dell’unità della
fede, questo comporterebbe la rinuncia alla verità, l’accontentarsi
di prospettive parziali e unilaterali. Appellarsi alla legittimità
del pluralismo come una rivendicazione costante potrebbe equivalere
semplicemente a un facile espediente: quando, infatti, non sussiste
alcuna relazione con l’estraneo, ci si accomoda nel proprio mondo e
nei propri interessi particolari, ci si immunizza, ci si isola e si
evita la competenza.
Il pluralismo risulta non meno nefasto
quando dimentica i postulati scientifici e agisce, o reagisce, mosso
esclusivamente da interessi sociali di carattere politico o di
critica sistematica verso la Chiesa. Da questa posizione può
derivare un atteggiamento sfrenato e capriccioso, una tirannia di
forze che aspira soltanto a imporre il proprio punto di vista. Si
scade nella chiusura e nella polarizzazione teologica. Resta dunque
aperta la questione dei percorsi di un pluralismo adeguato, in cui la
fede non cada nei lacci di un pluralismo smisurato, né di un becero
conformismo. Qual è, dunque, la forma cristiana di unità?
[...]
Von Balthasar elabora due criteri sui quali egli
incentrerà la sua riflessione circa la possibilità di un pluralismo
ecclesiale: il criterio di prossimità e il criterio di
massimalità.
Il criterio di prossimità comporta che qualsiasi
mistero resti tale anche dopo che sia stato rivelato. Il mistero non
è «controllabile», come vorrebbe la fantasticheria di tutte le
gnosi che — ansiose di controllarlo e, d’altra parte, dovendo
mantenere in questo controllo un qualche aspetto misterico —
traspongono il mistero nel controllo dei riti d’iniziazione. La
stessa cosa accade sul piano umano della comprensione del prossimo:
«L’intesa interpersonale, nella sua dialettica tra com-prendere e
lasciare-libero [...] è senza dubbio il luogo privilegiato per la
comprensione di quello che può essere la rivelazione divina in Gesù
Cristo. [...] La comprensione della fede conosce innumerevoli gradi
di profondità, il che non vuol dire che il mistero possa essere
dissolto successivamente e mutato in concetti misteriosi. Da una
simile illusione ci preserverà lo stesso nostro rapporto
interpersonale: la conoscenza della sfera personale di un altro uomo
ci introduce più profondamente negli spazi incondizionati della sua
libertà; ma, invece di diminuire, essa cresce in noi, e noi
cresciamo dentro di essa».
Poiché qualsiasi prossimità è un
avvicinamento di ciò che mi trascende, è essa stessa a liberare la
capacità interpellante di qualunque testo. Non si tratta più della
contrapposizione «o lettera o spirito», ma di un’apertura del
cuore che giunge a scoprire lo Spirito che c’è in ogni testo
rivelato. [...] Nel Vangelo, la prossimità per eccellenza, che è
quella del Dio incarnato, si esprime nel genere della parabola: il
buon samaritano.
In questa parabola si coglie l’atteggiamento
di «passare alla larga» [...]. Esso rende possibile confondere una
persona che invoca nel suo stato di necessità con un impaccio
qualsiasi: una confusione costruita dalla sufficienza.
Vi si
coglie anche l’altro atteggiamento, quello di colui che «si
avvicina» mosso dalla misericordia, «si fa prossimo»; perché
qualsiasi miseria ha qualcosa di pudico e si nasconde, e per
comprenderla, è necessario «farsi prossimo» ad essa. La prossimità
acquista la sua pienezza nella synkatabasis del Verbo, che si fa
prossimo. Allora, l’ultima parola di Dio, il Verbo incarnato,
trascende ormai l’ambito della rivelazione e dell’indottrinamento
(lo presuppone) e si esplicita in partecipazione e
comunione.
Questo, più che parola e azione, vuol dire
sofferenza, e pertanto l’«abbandono di Dio» fino alla discesa
agli inferi. Nel criterio di prossimità, reso eminente in Gesù
Cristo, c’è la realtà di Dio espressa sub contrario; e ciò tocca
tutti gli organi e i gesti della Parola divina, tutta la Chiesa,
compresa la riflessione teologica. La prossimità, condotta a questo
grado che si esprime in Cristo, è istituzione, è logica teologica,
ma non panteismo diffuso.
L’altro criterio utilizzato da von
Balthasar, la massimalità, nasce da qui, e costituisce un criterio
universale e sufficiente nei limiti del quale il pluralismo teologico
è ammissibile. [...] La massimalità dell’amore di Dio va
accettata, ma così come si trova in Gesù Cristo: nella povertà e
nell’umiliazione volute da Dio, che l’uomo non può respingere
con il pretesto che si raffigurava la maestà divina in un altro
modo, vale a dire come collocata esclusivamente nel cielo. In questo
senso, possiamo dire che il criterio di massimalità si può
intendere come l’eminente esplicitazione del criterio di
prossimità.
Per dirla in forma negativa, con parole dello
stesso von Balthasar, «tutte le volte che nella spiegazione del
mistero sembra che un aspetto risplenda in modo veramente razionale,
e che quindi il carattere misterico (che indica la “radicale
diversità” di Dio, la sua divinità, che lo distingue da tutto e
da tutti) è stato parzialmente respinto, per dare libera espressione
a una visione terrena che si può abbracciare con l’occhio umano,
lì c’è eresia, o per lo meno si sono oltrepassati i limiti della
legittima pluralità teologica».
Allora il mistero è stato
addomesticato, lo si è allontanato, lo si è minimizzato con un atto
che non è intellectus fidei , ma piuttosto intellectus rationis
humanae . Allora non ci sono più dogma o riflessione teologica,
bensì idea e ideologia. Come dicevamo sopra, infatti, in questo tipo
di ideologie plasmate attraverso la categorizzazione del mistero
esiste una dimensione che diventa una sorta di caricatura del
mistero, una dimensione misterica che lo avvicina a una gnosi.
Resta
aperta la problematica della relazione ideologia-gnosi, che tocca la
questione del pluralismo. Essa rende possibile definire ogni cattivo
pluralismo teologico come un monismo gnostico con pretese
programmatiche. Riguardo a questo, i fondamentalismi attuali possono
essere citati come esponenti del genere.
Il criterio di
massimalità, come espressione più compiuta del criterio di
prossimità, renderà possibile un reale pluralismo teologico:
infatti richiede un massimo di unità nel corpo di Cristo che è la
Chiesa, insieme a un massimo di differenza tra i suoi membri. Il
segno sarà l’unanimità nell’espressione plurale.
Un
cattivo approccio al pluralismo significa il contrario di questa
verità. Implica che non siamo capaci di sopportare l’unità
superiore, di cui — attraverso la sua missione e la sua grazia —
noi siamo soltanto un frammento, sicché l’unità resta spostata
dal tutto alla parte, e così cadiamo nelle ideologie proprie
dell’uomo unidimensionale, che si erge a «signore» della verità.
L’unità superiore implica che si sopportino tensioni e conflitti,
i quali, secondo von Balthasar, possono mostrarsi come dissonanze,
che tuttavia non vanno mai confuse con la cacofonia del monismo
gnostico.
Queste tensioni sono il «luogo bellico» del Vangelo,
e l’unità superiore a cui aspiriamo — unità in cui si risolvono
in maniera qualitativamente diversa le tensioni — è quella che ci
costituisce in creature, in servi; è quella che ci dà un
riferimento alla nostra identità. Essa, in definitiva, è
appartenenza a un corpo al quale siamo chiamati, e ci trascende e ci
consolida come credenti.
[...] L’autentico pluralismo deve
essere cosciente di essere parte, e mai il tutto. Il teologo deve
fare tutto il possibile affinché la sua verità trovi posto nello
spazio dell’unica Chiesa. D’altra parte, la comunione della
Chiesa può essere garantita soltanto se essa si esprime chiaramente
nella dinamica concreta della riflessione teologica. E qui entrano in
gioco tre elementi decisivi: il riferimento costante alla Sacra
Scrittura come fondamento; la conoscenza delle grandi tradizioni
cristiane; la comprensione attuale dell’uomo e del mondo.
[...]
La tensione tra pluralità e unità non soltanto non si può
risolvere accentuando una delle parti e spostando verso di essa il
polo di sintesi, ma non si può risolvere nemmeno ecclesialmente,
tentando una sorta di equilibrio tra le autonomie delle parzialità,
la cui formalità unitiva risulterebbe il sincretismo. In questo
caso, si otterrebbe soltanto una caricatura del vero pluralismo, e le
opzioni ispirate nel contesto di un simile atteggiamento
sincretistico potrebbero riuscire utili soltanto per il «momento»,
ma non per il «tempo», perché manca loro la capacità di apportare
armonia a qualsiasi processo e a qualsiasi accrescimento.
E in
concreto, tali soluzioni mancano di armonia cristiana, in quanto,
facendo del sincretismo su questo piano, si ottiene un compromesso di
parzialità autonome secondo un equilibrio concordato, ma non si
assume, né si esprime, quell’armonia cristiana che si raggiunge
soltanto passando attraverso la croce. Sopravvive una sorta di
asintoto che porta a tendere, senza raggiungerla, verso una
federazione di autonomie che pretende di simboleggiare l’unità.
L’unità di confessione ci invita a non diluire la ricchezza
originale della parola di Dio nelle sue differenze, e a respingere la
pretesa di fare noi le sintesi perfette e controllabili.
Partecipare
all’unità di confessione implica accettare di appartenere, e
quindi assumere tutte le conseguenze dell’appartenenza che questo
tipo di unità comporta, in noi, dal punto di vista ecclesiale. È
tutta la Chiesa a possedere tutta la verità di fede, ed è possibile
partecipare di questa totalità soltanto nella misura in cui
l’appartenenza ecclesiale risulta totale.
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