FABIO SCUTO
La Repubblica 27 febbraio 2015
A sei mesi dal cessate il fuoco la
ricostruzione non è ancora ripartita, fermata dai timori di un nuovo
conflitto
Omar se ne torna dalla scuola
dell’Unrwa di Shejaia con uno zainetto stinto sulle spalle, come
tutti i ragazzini del mondo alla fine delle lezioni. Cammina con la
testa bassa, deve traversare mezzo di questo quartiere fatto adesso
di collinette alte otto-dieci metri, sono le macerie delle case
distrutte nella guerra di questa estate. I ragazzini di questa zona,
li riconosci subito. Portano le scarpe senza calzini, anche se la
temperatura sfiora appena i sei gradi. Dalle rovine di casa sono
state strappate coperte e poco altro. Calze niente, perché non sono
una priorità. La notte la temperatura è gelida, i neonati sono
quelli che spesso pagano il prezzo più alto. Si moltiplicano i casi
di polmonite, ma anche di congelamento. «È diventato blu», dice
con dura semplicità Munir Khassi, il nonno di un bimbo di 5 mesi
morto nel sonno nel gelo notturno della sua casa sventrata a Khan
Younis.
Dieci anni e già veterano di quattro
guerre, Omar non ha più nemmeno un libro, un gioco. La sua famiglia
— i Fodil — vive dalla scorsa estate fra le rovine della loro
casa. La madre cucina con un fuoco fatto di legni sul pavimento di
quello che era il soggiorno. La sera a Shejaia si sente l’odore di
legna bruciata. I fuochi che si intravedono fra le macerie sono
l’unica fonte di luce e di calore in questo quartiere un tempo di
60.000 persone. Nella guerra sono state distrutte 96.000 case. Dei
130 mila sfollati in pochi hanno trovato ospitalità nei container o
nelle tende, in ventimila vivono ancora nelle scuole dell’Unrwa
adibite a rifugio ma la maggior parte sopravvive fra le macerie della
sua casa. La ricostruzione sei mesi dopo il cessate il fuoco è
appena accennata, e a questo ritmo ci vorranno 100 anni — ha
stimato Oxfam — per ricostruire ciò che è stato distrutto dalle
bombe in 50 giorni di guerra, mentre i miliziani di Hamas erano
occupati a lanciare 4.500 razzi verso Israele. Una scia di sangue di
2.200 palestinesi morti, 10.000 feriti, 72 israeliani uccisi, 1.500 i
feriti.
L’Unrwa, l’Agenzia Onu che assiste
i profughi palestinesi, ha finito i suoi fondi interrompendo il suo
programma di assistenza in dena- ro per sostenere dove possibile i
lavori di riparazione nelle abitazioni o per l’affitto di locali o
magazzini per ospitare gli sfollati. Gli impegni miliardari assunti
al vertice internazionale del Cairo non sono stati rispettati e gli
islamisti di Hamas, che controllano questo fazzoletto di terra, si
rifiutano di allentare la presa. Anzi si preparano di nuovo alla
guerra. Sparano missili in mare per testare la gittata, addestrano i
ragazzi delle scuole superiori alle armi per formare anche un
esercito di minorenni.
«Le modeste speranze di un futuro
migliore sono state spazzate via da questa ultima guerra e dalla
paralisi politica», dice Robert Turner capo delle operazioni
dell’Unrwa a Gaza, «i palestinesi sono intrappolati nella Striscia
senza nessuna speranza di cambiamento. Migliaia di famiglie sono in
attesa di aiuti, ma noi — l’Unrwa — non abbiamo più soldi. Se
non siamo più in grado di riavviare l’erogazione dei sussi- di, la
gente compresa quella che ha lasciato le nostre scuole e trovato
soluzioni alternative, sarà costretta a tornare».
Una delle ragioni per la mancata
erogazione di fondi da parte dei Paesi donatori, e di Israele di far
passare materiali da ricostruzione, è che il cemento potrebbe essere
usato da Hamas per i bunker sottoterra dove vivono i suoi leader e
per i tunnel, l’acciaio per costruire missili. I leader islamisti
sono stati abili dopo la guerra ad annunciare di voler cedere molte
responsabilità di governo a Gaza, ma certo non il potere. I loro
uomini esercitano ancora il controllo sui tre “valichi” con
Israele e l’Egitto. La polizia islamica controlla le città e i
miliziani del braccio armato Ezzedin al Qassam sono pronti a uscire
dai loro rifugi sottoterra. Anche i giornalisti che entrano a Gaza,
sempre di meno per le minacce di rapimento che vengono dai gruppi
filo-salafiti, ricevono il benestare all’ingresso da Hamas. Gli
islamisti che considerano Hamas troppo moderato guadagnano consensi,
la propaganda filo-Is fa proseliti. Sono stati loro a far saltare in
aria il Centro Culturale francese. In un mese sono stati fatti
esplodere 4 bancomat e nessuno sa chi possa essere stato. Esplodono
anche le automobili nelle notti buie di Gaza, quattro in due
settimane. La “voce della strada” dice che si tratta di una
escalation delle varie fazioni in lotta. Perché in questa lingua di
sabbia straziata dalla guerra ci sono almeno altri due conflitti
armati: quello tra Hamas e i salafiti che acclamano il Califfato, e
quella tra i fedeli — sempre meno — del presidente Abu Mazen e
quelli dell’ex delfino di Arafat Mohammed Dahlan che sta cercando
di mettere in piedi Fatah 2.0 per far fuori la vecchia guardia.
La Pesca è praticamente ferma, gli
agricoltori hanno avuto campi devastati dalle bombe e le fabbriche di
Gaza sono state colpite. Come la Pioneer che inscatolava pelati, o la
Al-Awda che produceva gelati, patatine e biscotti. Alla Al-Awda —
danni per 24 milioni di dollari — il lavoro è parzialmente ripreso
ma solo per i biscotti. Potrebbero fare di più se Israele
consentisse di far passare dei pezzi di ricambio e nuovi macchinari
per sostituire quelli ridotti a rottami. Ma per ora niente. «il
gelato dovrà aspettare » dice sconsolato il direttore Manil Hassan.
Gaza è una metafora di tutto ciò che
è sbagliato.
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