sabato 28 febbraio 2015

Gaza: Tra i bambini senza casa “Ora li uccide anche il freddo”


FABIO SCUTO
La Repubblica 27 febbraio 2015
A sei mesi dal cessate il fuoco la ricostruzione non è ancora ripartita, fermata dai timori di un nuovo conflitto
Omar se ne torna dalla scuola dell’Unrwa di Shejaia con uno zainetto stinto sulle spalle, come tutti i ragazzini del mondo alla fine delle lezioni. Cammina con la testa bassa, deve traversare mezzo di questo quartiere fatto adesso di collinette alte otto-dieci metri, sono le macerie delle case distrutte nella guerra di questa estate. I ragazzini di questa zona, li riconosci subito. Portano le scarpe senza calzini, anche se la temperatura sfiora appena i sei gradi. Dalle rovine di casa sono state strappate coperte e poco altro. Calze niente, perché non sono una priorità. La notte la temperatura è gelida, i neonati sono quelli che spesso pagano il prezzo più alto. Si moltiplicano i casi di polmonite, ma anche di congelamento. «È diventato blu», dice con dura semplicità Munir Khassi, il nonno di un bimbo di 5 mesi morto nel sonno nel gelo notturno della sua casa sventrata a Khan Younis.
Dieci anni e già veterano di quattro guerre, Omar non ha più nemmeno un libro, un gioco. La sua famiglia — i Fodil — vive dalla scorsa estate fra le rovine della loro casa. La madre cucina con un fuoco fatto di legni sul pavimento di quello che era il soggiorno. La sera a Shejaia si sente l’odore di legna bruciata. I fuochi che si intravedono fra le macerie sono l’unica fonte di luce e di calore in questo quartiere un tempo di 60.000 persone. Nella guerra sono state distrutte 96.000 case. Dei 130 mila sfollati in pochi hanno trovato ospitalità nei container o nelle tende, in ventimila vivono ancora nelle scuole dell’Unrwa adibite a rifugio ma la maggior parte sopravvive fra le macerie della sua casa. La ricostruzione sei mesi dopo il cessate il fuoco è appena accennata, e a questo ritmo ci vorranno 100 anni — ha stimato Oxfam — per ricostruire ciò che è stato distrutto dalle bombe in 50 giorni di guerra, mentre i miliziani di Hamas erano occupati a lanciare 4.500 razzi verso Israele. Una scia di sangue di 2.200 palestinesi morti, 10.000 feriti, 72 israeliani uccisi, 1.500 i feriti.
L’Unrwa, l’Agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi, ha finito i suoi fondi interrompendo il suo programma di assistenza in dena- ro per sostenere dove possibile i lavori di riparazione nelle abitazioni o per l’affitto di locali o magazzini per ospitare gli sfollati. Gli impegni miliardari assunti al vertice internazionale del Cairo non sono stati rispettati e gli islamisti di Hamas, che controllano questo fazzoletto di terra, si rifiutano di allentare la presa. Anzi si preparano di nuovo alla guerra. Sparano missili in mare per testare la gittata, addestrano i ragazzi delle scuole superiori alle armi per formare anche un esercito di minorenni.
«Le modeste speranze di un futuro migliore sono state spazzate via da questa ultima guerra e dalla paralisi politica», dice Robert Turner capo delle operazioni dell’Unrwa a Gaza, «i palestinesi sono intrappolati nella Striscia senza nessuna speranza di cambiamento. Migliaia di famiglie sono in attesa di aiuti, ma noi — l’Unrwa — non abbiamo più soldi. Se non siamo più in grado di riavviare l’erogazione dei sussi- di, la gente compresa quella che ha lasciato le nostre scuole e trovato soluzioni alternative, sarà costretta a tornare».
Una delle ragioni per la mancata erogazione di fondi da parte dei Paesi donatori, e di Israele di far passare materiali da ricostruzione, è che il cemento potrebbe essere usato da Hamas per i bunker sottoterra dove vivono i suoi leader e per i tunnel, l’acciaio per costruire missili. I leader islamisti sono stati abili dopo la guerra ad annunciare di voler cedere molte responsabilità di governo a Gaza, ma certo non il potere. I loro uomini esercitano ancora il controllo sui tre “valichi” con Israele e l’Egitto. La polizia islamica controlla le città e i miliziani del braccio armato Ezzedin al Qassam sono pronti a uscire dai loro rifugi sottoterra. Anche i giornalisti che entrano a Gaza, sempre di meno per le minacce di rapimento che vengono dai gruppi filo-salafiti, ricevono il benestare all’ingresso da Hamas. Gli islamisti che considerano Hamas troppo moderato guadagnano consensi, la propaganda filo-Is fa proseliti. Sono stati loro a far saltare in aria il Centro Culturale francese. In un mese sono stati fatti esplodere 4 bancomat e nessuno sa chi possa essere stato. Esplodono anche le automobili nelle notti buie di Gaza, quattro in due settimane. La “voce della strada” dice che si tratta di una escalation delle varie fazioni in lotta. Perché in questa lingua di sabbia straziata dalla guerra ci sono almeno altri due conflitti armati: quello tra Hamas e i salafiti che acclamano il Califfato, e quella tra i fedeli — sempre meno — del presidente Abu Mazen e quelli dell’ex delfino di Arafat Mohammed Dahlan che sta cercando di mettere in piedi Fatah 2.0 per far fuori la vecchia guardia.
La Pesca è praticamente ferma, gli agricoltori hanno avuto campi devastati dalle bombe e le fabbriche di Gaza sono state colpite. Come la Pioneer che inscatolava pelati, o la Al-Awda che produceva gelati, patatine e biscotti. Alla Al-Awda — danni per 24 milioni di dollari — il lavoro è parzialmente ripreso ma solo per i biscotti. Potrebbero fare di più se Israele consentisse di far passare dei pezzi di ricambio e nuovi macchinari per sostituire quelli ridotti a rottami. Ma per ora niente. «il gelato dovrà aspettare » dice sconsolato il direttore Manil Hassan.
Gaza è una metafora di tutto ciò che è sbagliato.

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