Corriere della Sera del 25/02/15
Marzio Breda
Chissà, forse pensa alla questione
morale, riesplosa con gli scandali degli ultimi mesi. E di sicuro
riflette anche sulla continua sovraesposizione mediatica di certe
toghe, che rivendicano un improprio spirito missionario, o sugli
alibi di altri colleghi che magari giustificano decisioni
incomprensibili con il richiamo a una cavillosa e ottusa applicazione
della legge (come se la legge non incidesse sull’esistenza concreta
delle persone). Fatto sta che Sergio Mattarella, in risposta alle
emergenze nel campo della giustizia, segnala alcune cose precise.
Spiegando che, nonostante il coltivato cinismo e la pretesa
assuefazione al peggio degli italiani, «il bisogno di legalità è
fortemente avvertito nel Paese». E aggiungendo che, per rispondere
con efficacia a quest’attesa, serve un impegno su tanti fronti, a
partire da «un recupero di efficienza» della macchina
giudiziaria.
Spetta soprattutto ai magistrati assicurarla, per
il presidente della Repubblica. Con sforzi nuovi su almeno un paio di
versanti. «Da un lato, competenza, mediante l’approfondimento e il
confronto sugli orientamenti normativi e giurisprudenziali;
dall’altro, profonda coscienza del ruolo e dell’etica della
professione». Questi i «pilastri» su cui, «attraverso la
formazione permanente, si regge la capacità del magistrato di
svolgere il compito affidatogli dalla Costituzione…». Un compito
che, puntualizza, non dev’essere «né di protagonista assoluto nel
processo né di burocratico amministratore di giustizia». Poi, per
farsi capire meglio, aggiunge che proprio quei «due atteggiamenti
snaturano la fisionomia della funzione esercitata».
Un rischio
che fu anticipato pure da Piero Calamandrei, di cui cita un
avvertimento: «Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i
giudici è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza
burocratica, dell’irresponsabilità anonima».
È la prima
uscita pubblica fuori Roma del capo dello Stato, altre ne farà
lunedì e martedì tra Berlino e Bruxelles. Stavolta entra nel campo
più delicato e infido della nostra vita pubblica e, dovendo
inaugurare l’anno accademico della Scuola superiore della
magistratura di Scandicci, si rivolge alle toghe. E, mentre il
Parlamento è al rush finale per la legge sulla responsabilità dei
giudici, non è poco quel che intanto raccomanda loro. Dunque, dopo
aver ricordato l’importanza del progetto di formazione che ha sede
qui e che è guidato da Valerio Onida, indica nella sfera di una
«comune cultura giuridica europea» l’orizzonte al quale puntare.
Ora, se si vuole stare decentemente in Europa anche per come
amministriamo la giustizia, oltre che sulle «riforme legislative»
in corso e sulle «strategie organizzative», è sulla «preparazione
professionale» che bisogna lavorare.
Dice Mattarella: «Al
magistrato si richiede una costante tensione culturale, che trova sì
fondamento in studi e aggiornamenti continui, ma si nutre anche di
una profonda consapevolezza morale della terzietà della funzione
giurisdizionale, basata sui principi dell’autonomia e
dell’imparzialità». Una sfida impegnativa, lo sa bene. Tanto più
impegnativa «in un contesto di crescenti attese da parte dei
cittadini, sempre più esigenti verso un servizio essenziale come la
giustizia, chiamata a definire l’equilibrio tra diritti e doveri
applicando le regole dettate dalla legge». Così, secondo lui «il
controllo di legalità, per essere giusto ed efficace, impone
percorsi formativi idonei a sviluppare nei magistrati la capacità di
comprendere le dinamiche in corso nel mondo in cui operano, ponendo
massima attenzione agli attori in gioco». Ed è proprio «l’alto
livello di preparazione a rappresentare la struttura portante su cui
si regge l’indipendenza della magistratura».
Non basta.
«L’ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia
coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia
tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità
della giurisdizione». La tempestività, ecco l’eterno problema di
ogni italiano che entri in un’aula giudiziaria. Tocca alle toghe
assicurarla, quando esercitano i loro poteri «in nome del
popolo».
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