lunedì 31 agosto 2015

Il linguaggio violento e l’assenza del confronto.


Corriere della Sera 31/08/15
Valeria Fedeli 

vicepresidente del Senato
Caro direttore, nel bel corsivo di Luigi Ferrarella, da voi pubblicato sabato con il titolo «Il crinale pericoloso delle parole violente», credo sia stato colto un punto di assoluta rilevanza su cui l’intera nostra classe dirigente farebbe bene a dedicare l’attenzione che merita. È il nesso che esiste tra linguaggio e agire politico, e in particolar modo tra il linguaggio violento e la logica della creazione del capro espiatorio. Nel corsivo viene posta l’attenzione sull’ultima malcapitata vittima del feroce populismo leghista, un albergatore di Bormio reo di aver alloggiato, nella piena legalità e in accordo con la prefettura, 60 migranti. Forse anche su chi ospita i migranti una parte della nostra classe politica continuerà a produrre etichette, additandoli di volta in volta come «traditori della comunità locale» o «speculatori»: la vera desolazione sta proprio nel constatare l’irresponsabile linguaggio di chi elemosina consensi elettorali incitando all’odio anziché curarsi di proporre un proprio progetto di futuro per il Paese. Il linguaggio in uso nella politica italiana, dovremmo ammetterlo senza scuse né giustificazioni, non è sempre stato all’altezza delle proprie grandi responsabilità. Siamo famosi in Europa per avere una delle classi dirigenti meno accorte nell’uso delle parole, che spesso fanno male perché usate in modo aggressivo, discriminatorio, stereotipato. Ma la deriva attuale è talmente grave da aver fatto compiere, a suo modo, una sorta di salto di qualità a questo lessico della violenza: dal linguaggio più o meno esplicitamente razzista, che colpisce tutte le minoranze e in particolare 
i migranti di queste ultime massicce fughe verso l’Europa, assistiamo ora all’aggressione generalizzata di chiunque provi ad affrontare le complessità della società attuale in altro modo. Guai a pensare diversamente, guai a chi cerca il confronto, a chi mostra di voler agire andando oltre gli eccessi di semplificazione tanto in voga in tempi di crisi. Uno spirito 
di sopraffazione che con le parole della violenza aumenta soltanto la confusione, il disorientamento e la paura delle persone; è invece soltanto con la conoscenza e con il continuo e lucido confronto che è possibile alimentare la dialettica necessaria al nostro agire politico. I tuoi pensieri diventano parole, le tue parole diventano i tuoi comportamenti, diceva Gandhi, ma per chi esercita responsabilità pubbliche questo principio raddoppia il proprio valore simbolico, perché le nostre parole possono diventare anche i comportamenti altrui. Chi alimenta il cieco conformismo della ricerca di nemici e capri espiatori, richiamando in causa un linguaggio non a caso tanto caro anche alla violenza politica nostrana di qualche tempo fa, quando si etichettavano i propri avversari come «nemico», «traditore», oppure «servo», rafforza condotte antisociali che non preannunciano nulla di buono. Quando la parola violenta giustifica la pratica dell’odio e crea nuova violenza, la spirale che si forma ci allontana dalle categorie della politica. Un piano inclinato, insegna la storia, difficile poi da rimettere in equilibrio. 


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