Corriere della Sera 20/08/15
Roberto Fubini
Musei d’italia il dossier
Permetterete una domanda volgare, nella
patria del più grande patrimonio artistico dell’umanità: 56
centesimi a testa sono un valore «inestimabile»? Questo è
l’aggettivo che di solito qualifica la Primavera di Botticelli agli
Uffizi o la Cena in Emmaus di Caravaggio alla Pinacoteca di Brera. Ma
se una cifra può esprimere il valore materiale di questi tesori —
non quello artistico o culturale — eccola: 56 centesimi. Sono i
ricavi nell’anno 2013 dell’intero sistema italiano di musei, siti
archeologici, biblioteche o archivi suddivisi per ciascuno dei 60,7
milioni di abitanti della Penisola.
Chiaro che è una stima
volgare, l’arte è ben altro. Eppure in un Paese assetato di posti
di lavoro, questa è la realtà: in attesa di simili dati per l’anno
scorso, risulta che nel 2013 l’intera rete dei musei italiani sotto
il controllo del ministero dei Beni culturali abbia fatturato 380
milioni di euro in biglietti, vendita di libri, guide e audioguide,
ristorazione, sponsorizzazioni, eventi e donazioni. Fanno 56
centesimi per ciascun residente in Italia, oppure una spesa di appena
4,90 euro per ciascuno dei 77 milioni di visitatori.
Può non
sembrare male, e non lo è se l’intero Paese più ricco di tesori
artistici al mondo si accontenta di ricavi più o meno pari a un solo
museo degli Stati Uniti. Il bilancio del Metropolitan di New York
segnala fra l’estate 2013 e quella del 2014 incassi per 350 milioni
di dollari. L’elenco delle fonti dei ricavi del Metropolitan è
emblematico di ciò che in Italia si dovrebbe far meglio: 38 milioni
di dollari dai pagamenti all’ingresso ma 70 milioni dal
«merchandising», ossia dalla vendita di libri o riproduzioni.
Il Met è impreziosito da opere di Vermeer, Degas, Monet, El Greco.
Gli Uffizi di Firenze invece hanno Tiziano, Raffaello, Leonardo,
Bronzino, Botticelli. Ma ai dati del bilancio 2012 gli Uffizi fanno
17 milioni di euro di ricavi dalla biglietteria, circa metà di
quanto il Metropolitan incassa dai suoi ingressi. E mentre il
«merchandising» del Met vale il doppio di questa cifra, 70 milioni
di dollari, i proventi da «servizi di gestione» degli Uffizi
appaiono irrisori: solo tre milioni di euro.
Si potrebbe
continuare, impietosamente, con il confronto fra la capacità della
Pinacoteca di Brera e del Rijksmuseum di Amsterdam di generare
ricchezza. Il museo olandese ospita vari Rembrandt e due bellissimi
Vermeer, ma quello di Milano non è da meno con Caravaggio, Mantegna,
Giovanni Bellini. Eppure i conti dei due enti sono distanti anni
luce. Il Rijksmuseum nel 2013 ha fatturato circa 40 milioni di euro
di introiti propri e ne ha ricevuti 72 di sussidi. Quanto a Brera, il
rendiconto effettuato da Boston Consulting Group su iniziativa
dell’Associazione Civicum ha rivelato ricavi per appena 2,3 milioni
di euro e costi di gestione per 10,4. In altri termini, solo con le
sue attività di negozi annessi all’esposizione, il Rijksmuseum
incassa più del doppio (4,9 milioni) di quanto faccia Brera con
tutte le sue forze.
In queste condizioni, non stupisce che sia
semplicemente siderale la distanza fra l’Italia e alcuni dei suoi
diretti concorrenti. L’inverno scorso il ministero ha organizzato
un convegno a Roma in vista della riforma che in questi giorni ha
portato le nomine dei direttori dei musei. La rappresentante di
Londra dichiarò che il sistema dei musei britannici generava circa 5
miliardi di euro di ricavi. Il francese aggiunse che solo il Louvre
produceva 2,5 miliardi l’anno. Non è chiaro se in quelle cifre sia
compreso l’indotto, ma al confronto i 380 milioni dell’Italia
appaiono un rendimento quasi risibile.
Una delle ragioni è
senz’altro l’idea che l’arte dev’essere fruibile a poco
prezzo per tutti, ma ora è stata rimossa con gli ingressi gratis
nelle prime domeniche del mese. Una seconda causa è però
l’abitudine di concedere proroghe di contratti a troppi piccoli
concessionari privati dei servizi museali. Finisce così che i grandi
gestori non investono anche quando ci sono, perché i ricavi attesi
sono troppo bassi. Va dunque spezzata la trappola di questo
equilibrio al ribasso offrendo a pochi, grandi concessionari la
gestione di servizi suddivisi per 17 regioni e 20 poli museali: è
l’idea della riforma del ministro Dario Franceschini, sostenuto
dall’iniziativa della Consip quando a guidarla c’era Domenico
Casalino.
I direttori stranieri dei musei hanno già sollevato
obiezioni. L’affidamento dei servizi a grandi gestori — italiani,
spagnoli o americani — certo ne procurerà altre. La sola domanda a
cui resta da rispondere, volgare ovviamente, è se può andare molto
peggio di così.
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