Corriere della Sera 19/08/15
Viviana Mazza
Il segnale che qualcosa era cambiato è
arrivato un anno fa, nel giorno dell’insediamento del presidente
Ashraf Ghani. «Ringrazio la mia partner e sposa per il sostegno dato
a me e all’Afghanistan», disse l’ex esperto della Banca
mondiale. Era la prima volta che un neopresidente afghano presentava
così la sua first lady (in 10 anni il predecessore Karzai non era
mai apparso in pubblico con la consorte). Da allora la 67enne Rula
Ghani, chiamata in pubblico sempre col nome afghano Bibi Gul («bibi»
significa signora, «gul» fiore), è attenta ai diritti delle donne,
si occupa dei problemi degli sfollati. Non senza critiche: è
libanese, è cristiana. C’è chi l’accusa di voler «convertire
le afghane al cristianesimo». C’è chi sottolinea la sua
cittadinanza (anche) americana. La first lady, che ha parlato al
Corriere alla vigilia del suo viaggio a Rimini dopodomani per la
XXXVI edizione del «Meeting per l’amicizia fra i popoli», sembra
camminare su un filo sottile, cercando di non alienare i conservatori
ma tentando di ispirare una generazione nuova di donne afghane.
La morte di Farkhunda, massacrata dalla folla a marzo con l’accusa
d’aver bruciato il Corano, ha sconvolto molti. I suoi assassini non
erano estremisti religiosi ma gente comune. Perché così tanti hanno
creduto a delle voci e commesso una violenza così estrema?
«Conosco la famiglia di Farkhunda. Sono venuti a parlarmi. Sono
assistiti da quattro avvocati pro-bono e dal consulente legale
presidenziale. È un caso inquietante. Usciamo da 23 anni di
conflitti e di guerra civile, la violenza non è sparita dalla
società: coesiste con i tentativi di applicare la legge. La gente ha
dimenticato i valori, l’etica, l’umanità. Ma non è così solo
in Afghanistan».
Sono necessarie leggi migliori per prevenire la
violenza contro le donne?
«Noi abbiamo già buone leggi sulla
violenza contro le donne e pure sull’uguaglianza nel posto di
lavoro. Inoltre la costituzione difende l’uguaglianza tra tutti gli
afghani. Il problema è che le leggi non sempre vengono applicate
perché accanto allo stato di diritto c’è uno stato di violenza, e
troppe armi in troppe zone del Paese».
Lei si considera una
femminista?
«Mi occupo di donne e anche di uomini, bambini,
esseri umani. Poiché il termine “femminista” significa cose
diverse per diverse persone, preferisco parlare di esseri umani».
Lei ha lamentato che i media presentano le afghane come se fossero
deboli. Abbiamo intervistato un’afghana coraggiosa, Niloofar
Rahmani, prima pilota donna post talebani: ma riceve minacce, sia dai
talebani che da membri della sua famiglia allargata. Cosa può fare
il governo?
«Anche Niloofar Rahmani è venuta a confidarsi da
me. Credo che i media stiano peggiorando la situazione, sarebbe
meglio che ci fossero meno articoli su di lei. Esistono dei modi per
garantirle maggiore sicurezza sul lavoro. Della famiglia allargata
non mi preoccupo, non l’hanno ostracizzata».
A marzo l’artista
Kubra Khademi ha indossato un’armatura per le strade di Kabul per
denunciare le molestie subite dalle donne. Anche lei ha ricevuto
minacce di morte?
«Di minacce di morte se ne ricevono a bizzeffe
in Afghanistan. Non voglio dire che non le prendo sul serio, ma se
fai un’azione intellettualmente provocatoria come quella, devi
aspettarti una reazione forte».
Alcune donne afghane sono state
coinvolte nei colloqui di pace con i talebani a Oslo. Avranno un
ruolo importante?
«Qualsiasi negoziato di pace finale non potrà non
includere il contributo di metà della società. Ma non so se i
contatti preliminari di Oslo porteranno lontano, non sono coinvolta».
Ha studiato giornalismo alla Columbia University, sua figlia vive
a Brooklyn. Cosa rappresenta l’America per lei?
«Quell’anno
alla Columbia fu molto bello, ero già una giornalista ma volevo un
diploma Usa per poter lavorare. Ma i figli erano piccoli, io e mio
marito eravamo soli, così ho deciso di dedicarmi alla loro
istruzione.
Cosa rappresenta l’America?
Credo che ognuno di noi
abbia identità multiple che si arricchiscono l’una con l’altra».
Lei è stata paragonata alla regina Soraya, che si tolse il velo
nel 1920, cui qualcuno dà la colpa per l’esilio suo e del re nel
‘29. Si sente simile a lei in qualche modo?
«La regina Soraya
era anche ministra dell’Istruzione, ha costruito un sistema
educativo dal quale mio marito ha tratto grande beneficio ma che è
stato distrutto nella guerra civile. Ma ha vissuto 80 anni fa e la
situazione è cambiata. Voglio aiutare anch’io l’Afghanistan ma
non sono così ardita da definirmi un’altra Regina Soraya» .
È
favorevole all’uso del burqa in Afghanistan?
«Chiunque abbia
portato il burqa, sa che è davvero scomodo. Questo è tutto quello
che dirò» .
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