venerdì 7 agosto 2015

Attuare le riforme al sud è più difficile.


Corriere della Sera 07/08/15
Michele Salvati
La Svimez non è un sindacato che rappresenta gli interessi delle regioni meridionali nello stesso modo e con lo stesso spirito con cui i sindacati difendono gli interessi dei lavoratori o la Confindustria quello degli imprenditori. La Svimez è un ente pubblico che persegue quel grande disegno nazionale di unificazione economica, sociale e culturale del Paese che le venne affidato nel Dopoguerra dalle migliori elite politiche ed economiche italiane: un disegno incarnato dalla straordinaria figura di Pasquale Saraceno. Questa missione della Svimez spiega in parte l’eco che il suo ultimo Rapporto ha avuto nell’opinione pubblica. Non del tutto, però: in parte la spiegazione sta nel j’accuse che il Rapporto rivolge all’assenza di interesse degli ultimi nostri governi — travolti da drammatiche esigenze di stabilità finanziaria — per l’eterna «questione meridionale»: per trovare tracce di attenzione seria bisogna risalire al governo Ciampi! E, per venire ad oggi: è mai possibile che, nella raffica di riforme attuate o proposte dal governo Renzi, il Mezzogiorno non figuri tra i grandi temi da affrontare? Per rimediare a questa lacuna Renzi dedica al Mezzogiorno l’ultima riunione estiva della direzione del suo partito, che si terrà oggi: l’interesse con cui va seguita non ha bisogno di spiegazioni. 
 Che il governo non abbia sinora collegato le sue riforme agli squilibri regionali e al Mezzogiorno sorprende non poco, perché collegarle era possibile, addirittura facile. I problemi di cui soffre il Mezzogiorno non sono diversi da quelli di cui soffre l’Italia nel suo insieme e non si risolvono solo «buttandogli più soldi addosso»: così facendo talora si aggravano. I problemi sono quelli delle riforme strutturali — dei modi in cui i soldi sono spesi — e la sola differenza è che sono più gravi al Sud che al Nord. I soldi servono, naturalmente, ma devono essere strettamente condizionati all’attuazione delle stesse riforme che servono al Nord del Paese e sulle quali l’indirizzo del governo è condivisibile: la scuola, la giustizia, la Pubblica amministrazione, devono funzionare meglio, e in ogni caso occorre un salto in avanti nel rispetto della legalità al fine di rendere il nostro Paese più efficiente e civile, tanto al Nord quanto al Sud. Ma poiché la situazione di partenza è peggiore al Sud, l’attuazione delle riforme promosse dal governo richiederà maggiori risorse e maggiore impegno nel Mezzogiorno. È qui che si incontrano le vere difficoltà, quelle sulle quali si è incagliata l’ultima stagione riformatrice, guidata dal Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione tra la parte finale degli Anni 90 e la prima del decennio successivo. E la ragione dell’insuccesso è oggi chiara: mentre il disegno delle politiche, data la natura e l’entità del problema, non poteva che essere nazionale, l’esecuzione e in parte lo stesso disegno erano stati affidati agli enti locali, a Regioni e Comuni, che inevitabilmente li hanno «adattati» alle promesse elettorali che avvertivano come più redditizie e alle scarse capacità di programmazione e di attuazione di cui disponevano. È questo il nodo che occorre sciogliere. 
 Insuccesso, dicevo, ma non senza eccezioni. E soprattutto un insuccesso che ha lasciato una mole enorme di informazioni e di riflessioni critiche, date le capacità e la dedizione di coloro che alle politiche del Dipartimento hanno collaborato. Non si parte da zero: c’è un grande patrimonio da valorizzare, purché non ci si facciano illusioni sui tempi entro i quali si otterranno risultati tangibili, anche se si risolvessero in tempi rapidi i problemi di indirizzo politico e di disegno amministrativo che il rilancio delle politiche di sviluppo e coesione comporta. E anche qui, come per i problemi cui ho accennato prima, potrebbe trovarsi una connessione che lega le riforme del governo alla questione meridionale. Gli avversari di Renzi potrebbero ragionevolmente paventare che un Senato non eletto dai cittadini, ma composto da rappresentanti delle Regioni e delle maggiori città, si trasformi in una sorta di doppione della conferenza Stato-Regioni e non in una sede in cui si dibattono e si propongono soluzioni per i grandi problemi del Paese. Ma non è forse l’unificazione economica, sociale e culturale dell’Italia il più grande obiettivo di state and nation building che ci portiamo appresso dai tempi dell’unificazione politica? E perché escludere che politici designati in elezioni regionali e comunali, specie se eletti con lo specifico mandato di rappresentare il loro territorio nel Senato nazionale, possano affrontare degnamente questo grande compito? Perché presumere che si comportino come gretti sindacalisti delle realtà locali che li hanno espressi? Se questi timori risulteranno infondati, il Senato renziano, nella sua interazione con la Camera dei deputati, potrebbe avere un ruolo nazionale di primaria importanza . 


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