lunedì 10 agosto 2015

Il Senato, i voti, le urne una partita rischiosa.


Corriere della Sera 10/08/15
Massimo Franco
Si capisce solo una cosa: che il governo comincia ad essere seriamente preoccupato di avere i numeri al Senato. Le proposte di mediazione che stanno fiorendo sul modo di eleggere i parlamentari della cosiddetta Camera Alta sono il riflesso di questa paura. Tra un mese o giù di lì, ci si potrebbe trovare davanti ad uno spartiacque drammatico, per il Pd e il suo presidente del Consiglio: o cambiare la riforma con un accordo che rimetta insieme gli spezzoni del partito maggiore, confermando l’elezione diretta dei senatori; o approvare una soluzione di compromesso coinvolgendo frammenti di Forza Italia. Ma in questo secondo caso, Matteo Renzi saprebbe di non potere più escludere l’eventualità di una scissione. 
 La sensazione, infatti, è che i suoi avversari interni non siano pronti ad accettare le ipotesi circolate nelle ultime ore: un segno che la scarsa disponibilità a trattare di Palazzo Chigi è simmetrica a quella della minoranza del Pd nei suoi confronti, e cioè vicina allo zero. D’altronde, la possibilità di un listino collegato alle elezioni per i Consigli regionali è ritenuto un mezzo pasticcio perfino da alcuni dei proponenti. Tra l’altro, ci sono problemi di adeguamento ad alcuni statuti locali. Soprattutto, la logica degli oppositori è di impedire che Renzi controlli la formazione delle liste parlamentari. E, nel caso del Senato, a loro avviso il problema si riproporrebbe, oltre a svuotare politicamente l’assemblea di Palazzo Madama. 
 A prescindere dall’esito, si tratta di un conflitto scaricato da mesi sul Paese; e ormai così incanaglito da far temere uno scontro anche istituzionale: un’eventualità di cui il Pd porterebbe per intero la responsabilità. Appelli anche autorevoli come quello dell’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a non stravolgere la riforma, non sembrano avere modificato le cose, né probabilmente potevano. Per paradosso, le posizioni si sono perfino irrigidite. L’articolo 2, quello sul modo di eleggere i senatori, che il premier non vuole sia modificato, in realtà contiene un comma destinato ad essere rivotato: il presidente del Senato, Pietro Grasso, l’ha già ribadito. E Sergio Mattarella ha fatto sapere di ritenere il Parlamento sovrano. 
 Significa che il capo dello Stato prenderà atto di quanto sarà deliberato dalle Camere, rimanendo rigorosamente ancorato al proprio ruolo di arbitro. 
 Il sentiero strettissimo attraverso il quale Renzi dovrà passare è dunque un’aula dai rapporti di forza incerti. Se va allo scontro senza trovare un accordo, può saltare tutto: una bocciatura dell’articolo 2 farebbe franare l’intera impalcatura. Se riesce ad arruolare parlamentari all’esterno della sua maggioranza politica, il «sì» avvicinerebbe però anche l’orizzonte di una frattura del Pd. 
 Insomma, il dilemma del presidente del Consiglio è cambiare la riforma del Senato cedendo; oppure trovare i voti in qualche modo, segnando la fine anche formale dell’unità del Pd e la nascita di una nuova coalizione parlamentare: magari come embrione di un futuro «partito della Nazione» con cromosomi moderati. 
 Rimane da capire se e quanto Silvio Berlusconi o almeno una parte di Fi sarebbero disposti ad aiutare il governo; e a quali condizioni. Forse chiederebbero una contropartita sull’Italicum: nel senso che il sistema elettorale verrebbe cambiato accettando il premio alla coalizione e non più al partito con più voti, presumibilmente il Pd. 
 È possibile che Renzi si riveli più disponibile a rivedere qualcosa su questo punto rispetto al Senato: anche perché teme che in caso di ballottaggio con il Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche, si possa formare un partito trasversale delle opposizioni, unite contro di lui. La sua aura di vincente è un po’ appannata; quella del realista regge ancora. Si capirà presto se il premier riuscirà a smentire quanti ritengono che abbia solo una marcia, e confidano su questo per logorarlo o perfino farlo cadere; o se sarà in grado di spiazzare i nemici. 
 Negli ultimi cento giorni, l’habitat del governo si è fatto più ostile, complici i risultati delle regionali e gli scandali in alcune giunte. Il problema è di prenderne atto. Il Senato non è un «Vietnam» popolato solo dai «vietcong» delle minoranze. La tensione creatasi in Parlamento è figlia di errori diffusi e grossolani. 
 La scommessa è non permettere che una rotta di collisione alla quale nessuno sembra voler rinunciare, convinto che alla fine lo farà l’avversario, porti a sbattere il Paese precipitandolo dentro le urne.

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