Corriere della Sera 17/08/15
Paolo Franchi
I dieci giorni in cui i bolscevichi
sconvolsero il mondo li narrò, in un reportage militante che fece
epoca, John Reed. Forse sarà Paolo Del Debbio, amichevolissimo
intervistatore di Matteo Salvini a Ponte di Legno, a tramandare ai
posteri i tre giorni del prossimo novembre in cui il leader leghista
si propone di abbattere il governo e di cambiar faccia all’Italia.
Forse. Perché è pure possibile, e magari probabile, che il progetto
si perda per strada, o prenda una veste più casareccia, o si risolva
in un mezzo flop. Intanto, però, è stato enunciato. E, c’è da
esserne certi, farà rumore.
Un tempo andava noto, il proposito
annunciato da Salvini, sotto il nome di «spallata». La si invocava
spesso, tanto a sinistra quanto a destra: ma, fatta (parziale)
eccezione per l’insorgenza antifascista del luglio 1960 che liquidò
il governo Tambroni, non è dato ricordare «spallate» andate a buon
fine. Anche se la crisi italiana, come gli stessi successi della Lega
salviniana testimoniano, è più grave, più profonda e più
limacciosa di come la si rappresenta, è difficile immaginare che un
simile, vecchio miraggio politico possa tornare di attualità. Ma non
per questo si può pensare di cavarsela con qualche battuta
sprezzante.
Ancora più della minaccia di liquidare in tre giorni
d’autunno il governo, colpisce il contesto in cui Salvini la ha
inserita nella sua intervista di Ferragosto. In particolare l’appello
ricorrente (tra una denuncia del «genocidio» di cui saremmo
vittime, un pesante invito ai vescovi a farsi i fatti propri sugli
immigrati e una tirata antieuropea) all’italiano medio. Perché si
ribelli in nome di un Paese finalmente normale, popolato da famiglie
«normali», scuole «normali» e via normaleggiando. Quello di
normalità è, non solo in politica, un concetto quanto mai
scivoloso. A vederlo di questi tempi maneggiato così, qualche
brivido lo si dovrebbe avvertire.
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