Corriere della Sera 29/08/15
Federico Fubini
L’intervista Pedro Sánchez
Madrid. A 43 anni, Pedro Sánchez ha
l’occasione della vita. Economista universitario, l’anno scorso
ha vinto le primarie del partito socialista spagnolo e ora è testa a
testa nei sondaggi con i popolari del premier Mariano Rajoy.
Probabilmente si voterà a inizio dicembre e al Consiglio europeo di
fine anno potrebbe essere Sánchez a rappresentare il suo Paese. Sta
già lavorando al programma: punta a un’alleanza con l’Italia e
la Francia perché, dice, non serve a nessuno «un’Europa tedesca».
Sánchez ne parla all’aeroporto di Madrid Barajas, in partenza per
il Messico. Ha smesso da un pezzo di vestire da politico del ‘900:
preferite maglietta e scarpe da jogging. Ma le sue spiegazioni
arrivano scandite, cartesianamente, per punti.
Le migrazioni
continuano a mettere i governi europei alla prova. Tutti dicono che
serve «più Europa», che vuol dire?
«Questi rifugiati in
arrivo dalla Siria, dall’Iraq o dall’Afghanistan non sono un
problema: sono cittadini minacciati nei loro diritti fondamentali,
perché vengono da realtà drammatiche e dalla guerra. L’Europa
dev’essere all’altezza».
Sì, ma in concreto cosa significa?
«Che gli Stati europei devono essere coscienti che il diritto di
asilo e lo status di rifugiato non è solo un obbligo morale. È una
responsabilità giuridica. Abbiamo firmato la Convenzione di Ginevra
e il Protocollo di New York sul diritto d’asilo. E questo è il
punto uno. Due: gli Stati membri non si sono dimostrati all’altezza.
L’Italia e la Grecia sì, perché sono più esposti. Però
diciamocelo: il resto dei Paesi europei, e in particolare la Spagna,
no».
Come premier, sarebbe disposto a spiegare agli elettori che
devono accogliere 40 mila o 50 mila persone, in base a un sistema
europeo di quote?
«Una politica di asilo comune è necessaria.
La proposta della Commissione, insufficiente per il numero, è
giusta: una politica di quote, in modo che gli Stati membri siano
solidali. E credo proprio che la Spagna debba essere più solidale di
quanto stia proponendo il governo, disposto ad accogliere poco più
di 2.500 persone. Ma più in generale, dobbiamo avere tre punti
fermi: il rispetto dei diritti fondamentali dei migranti; il rispetto
da parte dei migranti per lo Stato di diritto delle società nelle
quali si inseriscono. Terzo, dobbiamo lottare contro le mafie che
trafficano in esseri umani».
La Spagna cresce al 3%. Dunque,
sotto la guida del suo avversario Rajoy, deve aver fatto bene
qualcosa. Cosa?
«Metà della crescita si spiega con fattori
esterni: la caduta del prezzo del petrolio, la nuova politica
espansiva della Bce e la creazione dell’unione bancaria, che ha
migliorato le condizioni di finanziamento. Questo ha permesso che
poco a poco si recuperasse un po’ di credito per famiglie e
imprese».
L’Italia ha avuto gli stessi benefici, eppure cresce
un quinto della Spagna. Perché?
«Ogni Paese ha la sua
struttura. Noi abbiamo avuto un’estate record di turisti. Ma ora il
Fmi avverte che in Spagna, se non si affronta una modernizzazione,
nei prossimi anni la crescita probabilmente calerà. E resteranno
livelli di disoccupazione intollerabili. Credo che dobbiamo puntare a
guadagnare competitività non con il basso costo del lavoro, come ha
fatto il Partido popular, ma con l’innovazione, la scienza,
l’istruzione. Dobbiamo competere nel mondo facendo prodotti
migliori, non prodotti meno cari. E dobbiamo migliorare la
concorrenza nel mercato interno, liberalizzare. Anche per correggere
una realtà di oggi: la Spagna è seconda in Europa per l’intensità
delle diseguaglianze».
Cosa pensa del Fiscal Compact europeo?
«Che per risanare i conti fa più un punto di crescita del Pil, che
tutta la politica di aggiustamenti e tagli che stiamo subendo. Basta
guardare quello che ha fatto Obama: una politica di bilancio
espansiva, una politica monetaria espansiva, e ora gli Stati Uniti
hanno messo la crisi alle spalle».
Se sarà eletto, con chi
pensa di lavorare per portare avanti questa agenda?
«Italia,
Francia e Spagna possono essere i leader per una ripresa economica
giusta. Credo che la posizione della Commissione di sostenere la
domanda interna con più investimenti, con il piano Juncker, e anche
la linea espansiva della Bce vadano in questo senso. Ora dobbiamo
continuare».
Per esempio raddoppiando o triplicando il piano
Juncker, oggi da 315 miliardi?
«Sì, sì. La lezione della
Grecia è che i Paesi devono fare le loro riforme, specie
nell’amministrazione e nella lotta all’evasione. Ma dobbiamo
anche andare verso una maggiore integrazione. Condivido le posizioni
di Renzi e Hollande. Serve una maggiore integrazione dei nostri
sistemi bancari perché non ha senso che nell’area euro, in
funzione della nazionalità dell’impresa, ci siano costi di
finanziamento più o meno alti. E serve un’unione economica con un
vero bilancio: il piano Juncker può esserne l’embrione. Come
europei abbiamo anche bisogno di entrate europee per finanziare beni
pubblici europei, per esempio sulle infrastrutture. E dobbiamo
pensare all’obbligo democratico di render conto delle decisioni. Ci
sono idee interessanti su un parlamento dell’area euro».
Certi
suoi punti sono molto lontani dalla visione tedesca. È pronto ad
affrontare tensioni politiche in Europa?
«Mi è sempre piaciuta
la frase di Kohl, al momento dell’unificazione tedesca. Parlò di
una Germania europea e non di un’Europa tedesca. Credo sia
importante che i nostri colleghi tedeschi siano consapevoli che il
loro avanzo nei conti con l’estero si spiega perché ci sono
deficit commerciali in altre parti della zona euro. Bisogna
riequilibrare, e sono convinto che i tedeschi capiranno che abbiamo
bisogno di una politica economica a beneficio del complesso
dell’area. Ne ho parlato molto con Renzi, anche lui è sulla linea
di una maggiore integrazione».
Ma la famiglia socialista è in
difficoltà quasi ovunque in Europa. Qual è il problema?
«Be’,
stiamo a vedere. Credo che il cambiamento in Europa avrà un sapore
iberico. Ci sono elezioni in Portogallo il 4 ottobre e a dicembre
probabilmente si vota in Spagna e noi socialisti siamo ben messi per
vincere in entrambi i Paesi. È importante che noi socialisti non
parliamo solo di redistribuzione, ma di crescita. Avere un’agenda
di competitività è fondamentale. Ma dobbiamo anche parlare di
giustizia, perché oggi c’è una classe media lavoratrice che sente
che i costi della crisi sono caduti solo sulle sue spalle».
Su
questi temi i cosiddetti «populisti» vi fanno concorrenza.
«Sì,
ma quando le socialdemocrazie hanno dato battaglia, i populisti hanno
perso consenso. Non appartenere a famiglie politiche con un
retroterra alla fine ti porta sempre a prendere posizioni
anti-europee. Al di là dei discorsi sul recupero di sovranità che
può fare Beppe Grillo o il Front national o Podemos, o Tsipras nella
prima versione, la lezione della vicenda greca è che è vero il
contrario: per recuperare potere di decisione dentro il tuo Paese,
devi condividere sovranità fuori. L’Europa continua a essere la
soluzione, no?».
Per questo Podemos è in calo nei sondaggi?
«Rispecchia i fatti in Grecia. Il terzo pacchetto di salvataggio ha
lasciato Podemos con pochi argomenti».
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