mercoledì 19 agosto 2015

Nel Pd c’è chi non accetta la sfida del governo


Michele Salvati
L'Unità 19 agosto 2015
«Colpito e mortificato», usa questi due aggettivi il professor Michele Salvati, ideatore del Pd, per definire il suo stato d’animo rispetto alla rovente polemica che sta investendo i dem. Mortificato, spiega, dalla minaccia di scissione continuamente «ventilata da alcuni e da altri messa in atto».
Lei si dice “colpito e mortificato”. Cioè non si aspettava questo muro contro muro, lei che conosce così bene il Pd?
«In realtà pensavo che si andasse a fondo, dopo che Renzi ha rotto l’equilibrio consociativo tra ex Pci e ex Dc, su cosa voglia dire essere un partito di governo. Renzi sta dando una nuova identità al Pd che coincide con la proposta di governo che offre al Paese in generale e che non riguarda soltanto la sua area politica. Questa proposta nasce da un’origine che storicamente ha una sua idea di parte ma una volta al governo si rivolge a tutti. Finalmente il Pd fa ciò per cui è nato: si comporta da partito a vocazione maggioritaria».
Renzi dunque va nella direzione giusta?
«Renzi ha da subito impresso questa svolta e lo ha fatto con le sue proposte di riforme». 
Quello che gli contesta la minoranza è proprio il tipo di riforme che vuole attuare. C’è chi teme uno “snaturamento” del partito. Lei dà una lettura diversa? 
«Molti sono mossi da motivazioni alte, altri meno. Di sicuro c’è che Renzi gli ha sfilato di mano un partito che sentivano loro e alcuni non hanno affatto digerito lo scatto del Pd come partito di governo. Non sto qui a cercare di chi sia la colpa, credo che lo stesso Renzi avrebbe dovuto in qualche modo dare l’idea della narrazione da cui proviene questo cambiamento radicale che ancora non è chiara ai quadri del Pd».
Quindi uno dei motivi di questa guerra interna risiede nel fatto che non si condivide l’idea stessa di partito di governo?
«Un partito di governo è quello che si qualifica per le politiche che pratica e questo punto Reichlin lo ha colto in maniera molto chiara, come sempre. L’idea di fondo è di come debba essere questo Paese, di come vogliamo mettere in pratica i valori su cui si fonda il partito e Reichlin ha un’analisi puntuale sulla nuova “narrazione”, anche se non credo che lui userebbe questo termine. La minoranza deve rendersi conto che il passato è passato, oggi siamo al governo».
Questo è il Pd che lei immaginava quando lanciò il suo appello a Ds e Margherita?
«Diciamo che è il Pd che immaginavo, molto più del Pds e dell’Ulivo, anzitutto perché è un partito vero e non una coalizione. Ora, però, deve trasformarsi in un partito che si identifica con la lettura della storia italiana e dell’insieme di policies necessarie a trasformare questa storia. È ciò che fanno tutti i partiti con ambizione di governo».
A Renzi viene rimproverato di spostare il Pd a destra. Lei ho ha definito un liberale. Dopo quasi due anni di governo, conferma il suo giudizio?
«La proposta di Renzi è all’interno del liberalismo di sinistra, diciamo quello che avrebbe preteso di essere Blair, o della stessa Spd tedesca che tuttavia non è in buone condizioni. Le politicies che propongono i partiti di sinistra al governo sono politiche liberali di sinistra. Il problema in Italia è tutto qui: si vuole o no accettare un partito che si rivolge al Paese proponendo politicies che possono avere consenso anche più ampio rispetto ai propri elettori? La policy è composta essenzialmente da due cose: la somma e la sintesi delle policies e una narrativa del Paese che le giustifichi. Forse il problema è che questi due punti fondamentali non sono stati diffusi in maniera chiara».
Professore, ma non sarebbe meglio rimettere su le scuole di partito? Non aiuterebbero a capire i processi politici che si vogliono mettere in atto?
«Malgrado le delusioni del passato resto dell’idea che sarebbe altamente opportuno. E vorrei che in quelle sedi si raccontasse l’origine del declino del Paese, non solo economico ma culturale. Mi chiedo, ad esempio, perché non siamo noi il Paese guida sull’innovazione? Suggerei, anche a Renzi, di partire dalla lettura di un libro, “Ascesa e declino” di Emanuele Felice. Racconta la storia dell’ascesa e del declino, appunto, del nostro Paese, nato storto e peggiorato nel secondo dopoguerra».
Insomma, il processo nel Pd è irreversibile e la minoranza deve rassegnarsi?
«L’innovazione radicale portata da Renzi è arrivata per restare. Il Pd è legato a doppio filo con Renzi e se riuscirà a far passare la riforma del Senato e il referendum vorrà dire che sarà riuscito a dare l’idea al Paese che il suo governo è serio e affidabile e gli altri sono dei populisti. Il Pd, quindi, si consoliderà come partito leaderistico e guardi che non sarebbe affatto una cosa antidemocratica, come alcuni sostengono. È esattamente il contrario: sarebbe un partito che dà una delega al suo leader e questi ha la responsabilità di proporre policies di cui risponderà al Paese»
Lei disse che il Pd l’aveva delusa perché era soprattutto antiberlusconiano. Oggi di fronte ci sono Salvini e Grillo. Cosa deve fare per non diventare solo antisalviniano o antigrillino?
«Deve dare l’idea che il Pd è l’unica diga seria contro i populismi. Quando Salvini grida contro gli immigrati il Pd deve chiedergli “e tu cosa faresti?”. Idem sull’Europa. Bisogna incalzarli rispondendo alle loro urla con la richiesta di proposte concrete». 
Ma come può essere così incalzante contro questa opposizione se si dilania al suo interno e c’è chi vorrebbe andare a elezioni? 
«Davanti a responsabilità concrete, far cadere il governo o remare contro il proprio leader, io spero che lo spirito santo cada su di loro e ci resti a lungo».

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