Corriere della Sera 14/08/15
Tony Blair
Oggi il Partito laburista si trova in
pericolo mortale, forse come non è mai accaduto negli oltre cento
anni della sua esistenza. Dico questo come colui che lo ha guidato
per tredici anni e ne è membro da oltre quaranta. L’elezione del
capo del partito ha assunto un peso superiore alla personalità del
nuovo leader. La posta in gioco attuale è se il Labour resterà un
partito di governo oppure no.
I governi cambiano i Paesi, mentre
i movimenti di protesta non fanno altro che agitare le acque contro
coloro che governano. Il Partito laburista al governo ha cambiato
questo Paese. Non mi riferisco soltanto al salario minimo, alle
unioni civili, ai massicci investimenti nei servizi pubblici, che
hanno sollevato milioni di cittadini dalla povertà, né alla pace in
Irlanda del Nord. Noi abbiamo cambiato lo spirito dell’epoca.
Abbiamo costretto i Tory ad accettare i cambiamenti. Abbiamo dato
voce a chi non ne aveva. Abbiamo guidato e plasmato il discorso
pubblico. E sì, anche i governi talvolta prendono posizioni che non
piacciono alla gente, e col passar degli anni perdono il potere. È
questa la natura della democrazia.
Ma in mille modi, grandi o
piccoli che siano — e ben noti a chiunque governi un Paese — chi
è al potere fa la differenza per coloro che noi rappresentiamo. La
realtà è che negli ultimi tre mesi il Partito laburista è
cambiato. Il tesseramento è quasi raddoppiato. Alcuni si saranno
uniti a noi dopo lo shock degli ultimi risultati elettorali, ma molti
di più oggi accorrono tra le nostre file per sostenere la campagna
di Jeremy Corbyn. E alcuni di costoro hanno alle spalle grosse
organizzazioni. Questi ultimi due gruppi non sono veramente numerosi,
per rapporto alla popolazione, ma per quanto riguarda l’elettorato
di un partito politico, essi bastano a conquistare posizioni
importanti. La verità è che a costoro non importa se il Partito
laburista vince o perde un’elezione. Alcuni di loro addirittura
denigrano e disdegnano l’attività di governo.
Pertanto rivolgo
il mio appello ai membri storici del partito e a tutti coloro che si
sono uniti a noi senza però avere una piattaforma comune. Voi
rappresentate ancora la maggioranza e siete oggi chiamati ad
esercitare la vostra leadership per salvare il Labour Party. Non
importa che siate a sinistra, a destra o al centro del partito, che
mi abbiate appoggiato o esecrato. Vi chiedo soltanto di capire il
rischio che corriamo.
Il partito si dirige a occhi chiusi e a
braccia protese verso l’abisso, pronto a schiantarsi sulle rocce
sottostanti. Non è questo il momento per trattenersi dal turbare la
serenità di quella marcia col pretesto che possa provocare discordie
o spaccature. È questo il momento invece per un placcaggio decisivo,
come nel rugby.
Non viviamo più negli anni Ottanta. La
situazione attuale per molti versi si presenta più incerta e
minacciosa. Michael Foot non si illudeva di poter vincere un’elezione
politica nel Regno Unito, ma era una figura di enorme spessore e di
grande rilievo nel precedente governo laburista. Tony Benn non
sarebbe mai diventato primo ministro, ma era una personalità
politica di primo piano e vantava una lunga esperienza di governo.
I sindacati negli anni Ottanta erano in gran parte una forza di
stabilità e di buon senso. All’epoca esistevano collegi elettorali
così saldamente laburisti che nulla poteva intaccare la loro fedeltà
al partito.
Il partito che si è ricostituito dopo la sconfitta
del 1983 conosceva la strada da imboccare. Forse non capivamo appieno
fino a dove potevamo spingerci o quanto in fretta, ma sapevamo — e
il nuovo leader Neil Kinnock sapeva benissimo — che occorreva
accantonare la delusione di aver perso due elezioni perché non
eravamo abbastanza di sinistra e che bisognava modernizzare il
partito. Il nostro scopo era appunto quello di tornare al governo.
Quello che oggi abbiamo sotto gli occhi è un richiamo al passato, ma
senza le forze stabilizzatrici di allora. I grandi sindacati, con
l’eccezione dell’Usdaw, che ha raccolto i maggiori successi in
tempi recenti, sono tutti in pugno alla sinistra più intransigente.
E l’elettorato non nutre più quel sentimento di lealtà e fedeltà
di una volta.
Se Jeremy Corbyn salirà alla guida del partito,
alla prossima elezione non saremo davanti a una sconfitta come quella
del 1983 o del 2015, ma davanti alla disfatta totale, forse
all’annientamento. Se Corbyn verrà eletto a capo del partito, il
pubblico sarà sulle prime sorpreso, divertito, e persino
incuriosito. Ma col passar degli anni, quando le scelte politiche dei
Tory cominceranno a bruciare e si farà sentire l’esigenza di
un’opposizione dura ed efficace — e le opposizioni sono efficaci
solo quando hanno la speranza di vincere — il Paese finirà in
preda alla rabbia. L’elettorato ci punirà, ritenendosi vittima non
solo del governo conservatore, ma della nostra inazione e scarsa
incisività.
Jeremy Corbyn non ha nulla di nuovo da offrire. La
sua è la proposta più risibile di tutte quelle avanzate dal suo
schieramento. Quelli di noi che hanno conosciuto gli sconvolgimenti
degli anni Ottanta già conoscono a memoria ogni riga del suo
copione. Queste sono politiche del passato, già respinte non perché
troppo arroccate all’ideologia, ma perché la maggioranza
dell’elettorato britannico ben sapeva che non potevano funzionare.
Non dimentichiamo che sono state respinte dagli elettorati di tutto
il mondo per il medesimo motivo.
A maggior ragione oggi, la gente
sa che le sfide attuali non troveranno risposta nel ripristino
dell’antiquato controllo statale, e che questo non condurrà a
nessun miglioramento delle condizioni di vita personali e sociali;
esso sa che non è una buona idea staccarsi unilateralmente dalla
Nato, e che un partito sprovvisto di un serio programma di riduzione
del debito non può proporsi come valida alternativa di governo.
È ovvio che l’attuale campagna elettorale abbia suscitato un
grande interesse. Trovo affascinante osservare un partito che
combatte per ritrovare la sua anima, non è un’impresa facile.
Certo, molti giovani ne saranno entusiasmati. Molti giovani membri
del partito si erano appassionati nel 1997 e si adoperano per
modernizzare la politica del partito laburista ancora oggi.
La
tragedia, tuttavia, è che un danno incalcolabile è già stato fatto
da un dibattito politico che — con qualche onorevole eccezione —
si distingue per la sua irrilevanza nell’affrontare le sfide del
mondo moderno. Il partito dovrebbe discutere su come rivoluzionare i
servizi pubblici con l’impiego della tecnologia; come aiutare i
giovani non solo a trovare un lavoro soddisfacente e ben retribuito,
ma anche a lanciare imprese capaci di apportare benefici alla
comunità; sulla necessità di tenere unita la Gran Bretagna e
assicurarle il suo posto in Europa; su quali riforme puntare, nella
previdenza e nell’assistenza, in un’era di cambiamenti
demografici radicali.
E invece si parla di riportare in vigore la
Clausola IV della costituzione del partito. Abbiamo davanti un
ventaglio enorme di scelte da fare e di risposte da offrire, ma per
il momento non le abbiamo neppure formulate. Già sappiamo come andrà
a finire. Abbiamo già percorso questa strada. Ma oggi il seguito si
annuncia molto più spaventoso che in passato.
Allora fate pure,
scrivetelo se volete. Spingete il passo oltre l’orlo dell’abisso.
Ma un attimo prima, vi prego di fermarvi a pensare alle persone che
più vi stanno a cuore e a quello che si aspettano da voi.
(
trad. di Rita Baldassarre )
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