Corriere della Sera 17/08/15
Marco Galluzzo
Aiuti militari, finanziari, training
dell’esercito libico, missione di caschi blu dell’Onu a presidio
dei punti strategici del territorio libico, eventuali incursioni
aeree con gli alleati. È lo scenario su cui lavora ormai da mesi il
governo italiano, Palazzo Chigi e la Farnesina in una triangolazione
costante con il Quirinale, nel caso in cui davvero i negoziati
dell’inviato speciale della Nazioni Unite, lo spagnolo Bernardino
Leon, dovessero avere successo e riuscire a ricreare un fronte di
unità nazionale fra le diverse fazioni libiche e il governo
riconosciuto di Tobruk.
I preoccupanti passi avanti dell’Isis,
la conquista di Sirte, le notizie di barbarie che arrivano dalla
città che diede i natali a Gheddafi e le tragedie che ormai
quotidianamente costellano l’emergenza migranti hanno ovviamente
fatto salire la tensione, aumentato il senso di urgenza e provocato
un intensificarsi dei contatti della nostra diplomazia. Il nostro
governo anche ieri ha avuto colloqui con le autorità libiche e sta
accelerando gli sforzi per contribuire ad arrivare alla nascita di un
governo libico di unità nazionale.
Sarebbe il primo passo, dopo
mesi di negoziati difficilissimi, sin qui condotti da Leon con una
tenacia che gli viene ormai riconosciuta da tutti in sede
internazionale, per giungere a quel punto di svolta che non solo la
Farnesina e Palazzo Chigi, ma anche le Nazioni Unite, oltre ai nostri
alleati, ritengono prioritario rispetto a qualsiasi sforzo, aiuto o
intervento diretto, nella stabilizzazione del Paese africano.
L’unica cosa che si esclude, a tutti i livelli del nostro apparato
istituzionale, e con una sintonia che è univoca fra governo e
presidenza della Repubblica, è il classico intervento militare di
terra, «sarebbe un regalo ai terroristi, che non aspettano altro»,
confermano fonti governative che hanno seguito passo dopo passo il
dossier Libia negli ultimi mesi.
Ma un’eventuale fase 2, dopo
la costituzione di un governo di emergenza nazionale, schiuderebbe
uno scenario completamente nuovo. Il piano a cui sta lavorando Leon,
in costante contatto anche con il nostro governo, prevede un accordo
delle attuali 24 fazioni libiche (in 20 lo hanno già siglato,
mancano fra gli altri le autorità di Tripoli) sul nome del premier,
dei due vicepremier, sul programma di governo, sulle alte cariche
finanziarie del Paese (a partire dalla Banca centrale) e su alcuni
emendamenti alla carta costituzionale libica. Un accordo che
formerebbe un governo di emergenza nazionale della durata di un anno,
prorogabile di un altro anno, prima di cedere il passo a libere
elezioni. L’auspicio del negoziatore dell’Onu è riuscire a
chiudere entro la fine di settembre, prima dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite a New York.
Insomma, nonostante l’incarico
di Leon sia in scadenza, al momento quello del diplomatico spagnolo è
uno sforzo sostenuto con convinzione da tutti, e in primo luogo dal
nostro governo: «L’accordo per un governo nazionale in Libia resta
la sola possibilità — ha dichiarato due giorni fa il ministro
Gentiloni — affinché con il supporto della comunità
internazionale si possa far fronte alla violenza estremista e al
peggioramento quotidiano della situazione umanitaria ed economica del
Paese».
Parole che sembrano preludere proprio a una fase 2, fase
che fra i primi atti vedrebbe una richiesta formale del nuovo governo
libico di aiuti internazionali di stabilizzazione del Paese, oltre
alla richiesta di revocare le sanzioni di carattere militare.
Permettendo a quel punto, sotto precise garanzie, e con un modello di
supporto logistico a più livelli, a un governo unitario e
riconosciuto di avere una capacità militare maggiore per
fronteggiare i terroristi che si richiamano al Califfo dell’Isis.
Anche se una fase 2 è legata alla chiusura dei negoziati e dunque è
solo eventuale (la settimana prossima ci sarà un nuovo round di
negoziati in Marocco, cui parteciperanno anche autorità governative
italiane), il modello di un intervento della comunità
internazionale, probabilmente a guida italiana, che si è più volta
candidata senza trovare resistenze, prevederebbe al momento, oltre ad
aiuti militari e finanziari, anche la possibilità di inviare forze
di peacekeeping sotto l’egida dell’Onu per mettere in sicurezza i
punti nevralgici del Paese: il porto di Tripoli, gli aeroporti, i
principali collegamenti stradali, gli impianti petroliferi. A questo
si aggiungerebbe un aiuto diretto nell’addestramento militare di un
nuovo esercito unitario libico.
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