Corriere della Sera 04/03/15
Amos Oz Scrittore
Iniziamo dalla cosa più importante,
una questione di vita o di morte:
Se non ci saranno due Stati,
ce ne sarà solo uno;
Se ce ne sarà uno solo, sarà arabo;
Se
sarà arabo, chissà quale sarà il futuro dei nostri e dei loro
figli.
Uno Stato arabo, quindi, dal mare al fiume. Non uno stato
binazionale, poiché gli stati bi e multinazionali (tranne
l’eccezione svizzera) non hanno un futuro promettente: difatti
tendono a frantumarsi o a dissanguarsi fino all’annientamento.
E
difatti, immaginare che palestinesi e israeliani, che si sono
inflitti finora reciprocamente tante e tali sofferenze, siano
disposti all’improvviso a voltar pagina e ad accogliere una
pacifica ed equa convivenza, appare a dir poco una chimera. Dopo
un’eventuale separazione, in un futuro lontano, potrebbero anche
adottare una qualche forma di cooperazione, ma non prima che i
palestinesi abbiano avuto modo di sperimentare la libertà e la
dignità che — come ben sappiamo — scaturiscono
dall’indipendenza. Pertanto, esclusa la realtà di due Stati, e
relegato al dominio della fantasia l’ipotesi del binazionalismo,
ecco che avanza minacciosa la prospettiva di un unico Stato arabo in
grado di cancellare il nostro sogno sionista.
Nel tentativo di
arginare una visione così funesta, questa terra — dal fiume
Giordano al mar Mediterraneo — potrebbe essere governata da una
dittatura di fondamentalisti ebraici, caratterizzata dal fanatismo
razziale e capace di imporre la sua volontà sia alla maggioranza
araba che all’opposizione ebraica. Come si è visto in gran parte
delle dittature delle minoranze nell’era contemporanea, anche
questa non durerà. Dovrà fare i conti con il boicottaggio
internazionale, assistere a bagni di sangue interni, o entrambe le
cose, finchè non sarà costretta a cedere davanti all’inevitabile:
uno Stato arabo dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. E la
soluzione dei due Stati? Molti di noi, che appoggiano questa
prospettiva, sostengono che l’attuale conflitto non può trovare
soluzione in altro modo. Ai loro occhi, Yasser Arafat era troppo
forte e intransigente, ma il suo successore Mahmoud Abbas (Abu
Mazen), uomo ponderato e ragionevole, è troppo debole. Pertanto si
manterrebbe in vita l’opzione dei due Stati tramite un’operazione
di «gestione del conflitto».
Ma ahimè, solo l’estate scorsa
abbiamo vissuto sulla nostra pelle il significato di questa
«gestione», che ci condanna alla prossima Guerra del Libano, e a
un’altra ancora; alla prossima Guerra di Gaza, e a tutte le
successive; come pure alla terza, quarta e quinta Intifada a
Gerusalemme e in Cisgiordania, combattute nelle nostre strade. Il
collasso inevitabile dell’Autorità palestinese vedrebbe l’emergere
di Hamas o di un successore ancor più estremista, mentre tutti
sarebbero testimoni di un’infinità di morti da una parte e
dall’altra. Questa è la realtà della «gestione del
conflitto».
Infine, l’idea di una possibile risoluzione del
conflitto merita uno sguardo più approfondito: da un centinaio di
anni a questa parte, non c’è stato un momento più favorevole alla
fine delle ostilità come oggi. Non che i nostri vicini si siano
convertiti al Sionismo, né abbiano di colpo accettato il nostro
diritto a questa terra. Il motivo invece sta nel fatto che i
principali attori politici della regione — Egitto, Giordania,
Arabia Saudita, gli altri Stati del Golfo e del Nord Africa — si
ritrovano ad affrontare una minaccia di gran lunga più imminente e
catastrofica a lungo termine rispetto a Israele. Per alcuni di loro,
l’Iran è al vertice nella classifica delle forze del male. Per
altri, questa minaccia si chiama Isis. Ma sia Teheran che l’Isis
sono la causa delle molte notti insonni in tutte le capitali del
Medio Oriente, e su questo sfondo oggi Israele appare come parte
della soluzione, se solo la collaborazione con noi fosse legittimata
e rafforzata con la fine dell’occupazione dei Territori palestinesi
e con il riconoscimento delle aspirazioni dei palestinesi verso uno
Stato proprio.
Dodici anni fa ci è stata proposta l’Iniziativa
saudita per la pace, in seguito sottoscritta (con qualche modifica)
anche dalla Lega araba. Non suggerisco di adottarla a occhi chiusi,
ma certamente vorrei che venissero coinvolti i sauditi ed altri
partecipanti in una discussione sui nostri dubbi e le nostre riserve.
Una nostra risposta condizionata, ma positiva, a questo rovesciamento
storico dell’antica posizione araba di rifiuto e chiusura totale
sarebbe altamente auspicabile, e spalancherebbe la porta alla
collaborazione sia sulla proposta dei due Stati che sulla sicurezza
regionale.
La verità ineluttabile — per quanto controversa —
è che la Guerra dei sei giorni, nel 1967, ha segnato la nostra
ultima vittoria decisiva. Da allora, nessun risultato ottenuto può
essere considerato una vittoria, perché in guerra il vincitore non è
necessariamente colui che infligge le distruzioni peggiori, ma colui
che ottiene il suo scopo. Non avendo fissato alcun obiettivo politico
per le guerre più recenti, non abbiamo potuto né aspettarci né
dichiarare vittoria, e l’assenza di obiettivi è il riflesso di una
realtà in cui nessuno dei nostri obiettivi nazionali è più
raggiungibile con la forza.
Con questo non intendo dire che la
forza militare sia ormai inutile. Anzi, essa è essenziale alla
nostra stessa sopravvivenza. Fin troppo spesso ci ha protetto
dall’annientamento, ed è servita sia come deterrente, ma anche per
sconfiggere tutti i nostri avversari laddove la deterrenza è
fallita. La forza militare ha svolto egregiamente i suoi compiti. Ma
non confondiamo la legittima autodifesa — dove non possono esserci
compromessi — con l’illusione di imporre con la forza la nostra
volontà politica sugli altri.
È questa la realtà dei limiti
della forza militare, com’è stato dimostrato a più riprese negli
ultimi decenni, ed è per questo che sono giunto alla conclusione che
la cosiddetta «gestione del conflitto» è la ricetta di nuove
sventure. Essa è destinata a fallire e dovrebbe, anzi, cedere il
passo a uno sforzo sincero e duraturo verso la soluzione del
conflitto.
Fin troppi israeliani si sono convinti che basta
utilizzare un bastone più grosso e far mostra di maggior risolutezza
per «educare» gli arabi a sottomettersi alla nostra volontà.
Tuttavia, nel centesimo anniversario di questo concetto fasullo,
davanti alla prova schiacciante che il nostro bastone sempre più
grosso si rivela ogni volta inadeguato, è giunto il momento di
riconoscere l’arroganza e la futilità del voler «convincerli
della nostra supremazia».
Eppure, la nostra politica è ancora
concepita per imporre la nostra volontà con l’uso della forza. Di
conseguenza, in Cisgiordania, l’Autorità palestinese è sul punto
di crollare da un momento all’altro, sbattendo la porta su
importanti operazioni di coordinamento per la sicurezza e lasciandola
invece spalancata a Hamas e ad altri gruppi di estremisti pronti a
occupare gli spazi lasciati liberi.
I coloni e i loro
sostenitori in patria e all’estero ripetono che questa terra è
nostra per diritto. E quale sarebbe questo diritto? Non hanno ancora
capito che il mondo — tra cui la maggioranza degli Stati arabi —
riconosce il nostro diritto allo Stato di Israele all’interno della
«linea verde» ma respinge senza mezzi termini la nostra occupazione
dei restanti territori? Che riconosce il diritto dei palestinesi ad
uno Stato accanto al nostro, ma respinge ogni pretesa di
ampliamento?
Questi coloni, molto simili in questo alla loro
controparte estremista tra i palestinesi, sembrano aver dimenticato
che i diritti — per quanto divini — se privi di legittimità
internazionale devono restare confinati alle sacre scritture, non
entrare a far parte del programma di governo.
Quando vantano il
diritto esclusivo alla Terra di Israele si rifanno al precetto
religioso di non cedere un palmo di terra, e quando pretendono di
modificare la normativa che regola la Spianata delle moschee non si
curano affatto dei sentimenti di quanti ne condividono la sacralità.
Ai loro occhi, offendere 200 milioni di arabi è solo una prova di
forza per scatenare lo scontro con un miliardo di musulmani in tutto
il mondo.
Allora io chiedo: quando reclamiamo il diritto di
pregare sulla Spianata delle moschee, siamo disposti a rinunciarvi
finchè non verranno raggiunti gli accordi e che la questione non sia
più fonte di divisioni e scontri? A coloro che intendono scatenare
una guerra di religione sulle modalità di preghiera io dico: non nel
mio nome. Non nel nome dei miei figli, dei miei nipoti, non nel nome
di tutti i miei cari e di tutti coloro che sono d’accordo con
me.
É sorprendente come persino la provocazione nei confronti
degli arabi e dei musulmani non sembri soddisfare il loro appetito.
Oggi assistiamo al tentativo di dettare le scelte politiche degli
Stati Uniti, senza tener conto delle conseguenze per il nostro
principale alleato strategico. Nel favorire un connubio tra la nostra
estrema destra e la loro, nel tentativo di scalzare le fondamenta
tradizionali bipartisan di tali rapporti, questi politici
irresponsabili mettono a repentaglio la nostra sicurezza nazionale.
Con presunzione essi vanno affermando: «Il leader del mondo libero
oggi è solo nella lotta contro la minaccia iraniana, come osa Obama
sbarrargli la strada?»
La nostra storia è ricca di esempi in
cui abbiamo sfidato il mondo e in più di un’occasione i risultati
sono stati catastrofici. David Ben Gurion vedeva giusto quando ci
insegnava che lo Stato di Israele non sarebbe mai esistito senza
l’appoggio di un forte alleato a livello globale. Oggi, per quanto
salda sia la nostra alleanza con gli Stati Uniti, la sua permanenza
non è affatto scontata. Essa richiede rispetto e considerazione, e
certamente non deve essere sottoposta a pressioni malevole e
interessate.
In questo contesto, come in altri, occorre
distinguere ciò che è permanente da ciò che è transitorio. La
nostra alleanza con gli Stati Uniti è transitoria, e sta a noi
investire costantemente i nostri sforzi per mantenerla in vita.
D’altro canto, la nostra presenza accanto alla Palestina e nel
cuore del mondo arabo è una caratteristica permanente della nostra
realtà ed è questa a dover dettare le nostre scelte. Allo stesso
modo, la forza degli agenti ostili, dai terroristi alle potenze
nucleari, è in fase di trasformazione. Pertanto, dobbiamo garantire
in permanenza la superiorità delle nostre capacità difensive. E per
assicurarci che la nostra potenza difensiva sia sempre adeguata per
affrontare ogni eventuale minaccia, nulla è più deleterio che
prendere decisioni unilaterali; coalizzare la comunità
internazionale contro di noi; e indebolire la nostra alleanza con gli
Stati Uniti. Al contrario, guidare uno sforzo di pace dinamico con i
nostri vicini palestinesi sotto l’egida dell’Iniziativa araba di
pace farà molto per forgiare una coalizione di sostegno, regionale e
internazionale, e disinnescare le tensioni nei territori, verso un
rafforzamento della sicurezza nazionale.
Il mio appello per la
pace non è fondato su ingenue aspettative riguardo le difficoltà
nel superare le differenze o le sfide che ci vengono poste dalle
bocciature che riceviamo da ogni parte. La pace non è un giocattolo
su una mensola, che basta allungare una mano per afferrarlo. Né era
semplicemente per il rifiuto di un papà — Rabin, Barak o Olmert
poco importa — di pagare il prezzo che ne siamo stati privati così
a lungo. Come dice il proverbio arabo: per applaudire ci vogliono due
mani. Bisogna essere in due per ballare il tango attorno al tavolo
dei negoziati e la nostra controparte palestinese ha contribuito non
poco ai passati insuccessi. La colpa è di tutti coloro che sono
stati coinvolti in questa vicenda, parti terze e sostenitori
inclusi.
Di conseguenza, non prometto nessuna soluzione rapida
verso un accordo; nessuna facile attuazione; né una panacea per il
giorno dopo. Ma prevedo gravissime conseguenze se non sapremo
separare il nostro Paese da quello palestinese. Non mi stancherò mai
di ripeterlo: ci saranno due Stati se lo vorremo, oppure un unico
Stato arabo in mancanza di alternative.
Non me la sento di
criticare i milioni di israeliani che riconoscono la necessità di
dividere i territori ma non si fidano della volontà dei palestinesi
di garantirci quello di cui abbiamo più bisogno: la sicurezza.
Capisco e condivido questi timori legittimi. Non li prendo alla
leggera. Anzi, ritengo che occorre addossare al movimento per la pace
e ai suoi leader l’ulteriore responsabilità di vegliare
attentamente sulle questioni di sicurezza; di cercare nuove sedi per
ribadirne la necessità e l’attuazione (come quelle offerte
dall’Iniziativa araba per la pace); e di convincere gli scettici
della sua fattibilità.
La mia premessa sionista è semplice e
diretta: non siamo soli su questa terra, né siamo noi gli unici
proprietari di Gerusalemme. Ai miei amici palestinesi dico lo stesso:
nemmeno voi siete soli qui. Questa nostra piccola casa dovrà essere
suddivisa in due appartamenti più piccoli. E che vi sia una buona
recinzione tra le due proprietà, per garantire rapporti di buon
vicinato.
Una volta divorziati, proviamo a coesistere gli uni
accanto agli altri, lasciando alle future generazioni il progetto di
una possibile coabitazione — confederata o di altro genere. La
nostra vita non è un film di Hollywood con i buoni contro i cattivi,
bensì una vera tragedia di due cause giuste in un conflitto che
genera sempre maggiori ingiustizie. Potranno continuare a scontrarsi,
infliggendo ancora più lutti e sofferenze. Oppure potranno cercare
di riconciliarsi tramite la separazione e il compromesso.
Nelle
terre bibliche è difficile misurarsi con gli antichi profeti.
Eppure, è lecito affermare che in Medio Oriente la durata di un
«mai» o di un «sempre» va dai tre mesi ai trent’anni. Ciò che
era impossibile quando prestavo servizio in divisa durante la Guerra
dei sei giorni si è trasformato in un visto egiziano e giordano sul
mio passaporto. Coloro che si opponevano aspramente a cedere un
territorio «tre volte più grande di Israele» per sancire la pace
con l’Egitto non immaginavano che quella pace sarebbe durata per
decenni, superando prove durissime. I loro argomenti, allora e
adesso, contro la pace con i palestinesi rispecchiano lo stesso
terrore dell’ignoto, la stessa riluttanza ad assumere rischi nella
prospettiva di un futuro migliore, malgrado la certezza che lo status
quo è un’illusione, che sarà sostituita dall’inaccettabile. E
proprio come i due precedenti — con l’Egitto e la Giordania —
così pure le nostre dispute con la Palestina non saranno risolte
dalla sera alla mattina. Eppure anche qui, con una leadership
illuminata, si potrà cancellare la parola
«impossibile».
(Traduzione di Rita Baldassarre)
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