FERDINANDO SALLEO
La Repubblica 29 marzo 2015
RICORDA le diatribe politiche interne
degli Stati europei, la battaglia che agita l’America nell’ultimo
biennio di un presidente, sovente aspra sui temi economici e sociali
in vista delle elezioni per la Casa Bianca. Lo scenario di
Washington, tuttavia, ha preso crescenti toni oltranzisti con manovre
che colpiscono ormai la politica estera degli Stati Uniti e
complicano ancor più la gestione delle crisi e i rischi per la
stabilità internazionale. Dovrebbe essere una preoccupazione anche
per noi europei perché tocca da presso la solidarietà atlantica e
la formazione di obiettivi comuni. Dominato dai Repubblicani, il
Congresso è apertamente ostile a Obama, anche personalmente e non
senza un sottofondo razziale inespresso, mentre i suoi esponenti
parlamentari e gli aspiranti candidati alla presidenza fanno a gara
su bizzarre posizioni radicali in vista delle primarie, incalzati da
settori ideologici tra cui sono ricomparsi i neoconservatori e dai
gruppi di pressione, dagli interessi costituiti e dai grandi
finanziatori dopo che la Corte Suprema ha eliminato i limiti ai
contributi alla politica che inondano di fondi.
La loro strategia concentrica associa
la tragedia del Medio Oriente-Mediterraneo e la sorda crisi ucraina
in un contesto che mira a esautorare del tutto Obama sul piano
politico e privarlo anche della sostanza dei poteri di decretazione —
in parte, è vero, controversi sul piano costituzionale — di cui
sinora si sono avvalsi molti presidenti. Una risoluzione in corso di
trattativa obbligherebbe il presidente a sottoporre al Senato ogni
intesa, anche informale, andando questa volta ben di là dal dettato
costituzionale. È guerra aperta e senza quartiere, anche se qualche
repubblicano vicino alla tradizione cerca prudentemente di
nascondersi o di abbozzare cauti contatti con la Casa Bianca.
Così, dopo l’invito a Netanyahu a
rivolgere al Congresso l’atteso duro discorso di denuncia del
processo di intesa sul nucleare iraniano ormai alle porte, negoziato
assieme agli alleati europei e con la possibile collaborazione di
Mosca e la legittimazione del Consiglio di Sicurezza, quarantasette
senatori repubblicani, capeggiati da McCain che sembra però pentito,
sono persino giunti a pubblicare una lettera inviata a Teheran per
sottolineare agli ayatollah che il decreto che sancisca un accordo
per il rinvio decennale dei progressi verso l’atomica con opportuni
vincoli e verifiche potrebbe essere revocato dal prossimo inquilino
della Casa Bianca che, ritengono, sarà uno dei loro. L’Iran è
stato quindi avvertito del rischio che l’atto non valga tra un anno
e mezzo la carta su cui sarà stato scritto. Una decisione che
sfiora, se non altro moralmente, l’alto tradimento, l’intesa con
il nemico denunciato come pericolo per la sicurezza nazionale.
Comunque, rischia di inasprire l’ostilità antiamericana degli
estremisti iraniani rendendo un buon accordo quasi impossibile.
Se non altro, le due guerre perdute nel
“grande Medio Oriente” dai neoconservatori li hanno dissuasi dal
promuovere l’invio di truppe nella regione.
Alla pressione dei repubblicani più
radicali per inviare armi a Kiev, pur rischiando un conflitto locale
con la Russia che avrebbe distrutto ogni negoziato diplomatico e
possibilità di soluzione geopolitica, Obama ha resistito anche con
l’appoggio dei più cauti membri della “vecchia Europa”, come
ci chiamava Rumsfeld, sfuggendo alle sollecitazioni di taluni nuovi
governi dell’Unione preoccupati per il disinvolto avventurismo di
Putin nella regione.
Infine, sui due grandi accordi di
cooperazione, con l’Asia il Ttp e con l’Europa il Ttip in vista
delle premesse per l’integrazione economica di sistema, le lobby
mettono in forse i necessari poteri a negoziare senza cui l’incerta
ratifica del Senato scoraggia le controparti dal fare concessioni.
Barack Obama non ha mai stabilito con
il Congresso e con l’opposizione il rapporto di cordiale, fattivo e
continuo dialogo, quella manipolazione diplomatico-politica che molti
predecessori avevano creato con i parlamentari dopo lunga
consuetudine di attività collegiale, Johnson soprattutto e Ford, ma
anche Nixon e lo stesso Clinton — a parte le acute crisi finali
delle due presidenze — facendo dei checks and balances tra i poteri
dello Stato un sistema funzionale che consentiva intese e
compromessi. Assistito da un Consiglio per la Sicurezza nazionale
debole e talora incauto — non sono più i tempi di Kissinger,
Brzezinski o Scowcroft — Barack Obama appare distaccato e razionale
quando si rivolge alla nazione o incontra i governanti stranieri
senza spingersi sino al rapporto personale di Roosevelt con
Churchill, o di Reagan con Thatcher.
Una visibile disfunzionalità sovrasta
il sistema istituzionale che cerca senza troppo impegno una via
d’uscita. Anche se è difficile intravedere cambiamenti
caratteriali o di stile, il tortuoso processo della scelta dei
contendenti del prossimo anno e la consapevolezza che, se
l’estremismo può far vincere le primarie, le elezioni
presidenziali si vincono al centro, potrebbe ricondurre lo scenario
politico di Washington a maggiore senso di responsabilità.
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