Corriere della Sera 12/03/15
Gian Guido Vecchi
Nella stanza 201 della Domus Sanctae
Martae la sveglia suona puntuale ogni mattina alle 4.45, le luci si
accendono alle finestre del secondo piano che si affacciano a Nord
sulle piazzetta e la facciata meridionale della Basilica di San
Pietro. Non ci sono aiutanti di camera né procedure di vestizione,
Bergoglio fa da sé e non si cura di quanto è sempre accaduto, con
variazioni inessenziali, nei secoli precedenti. Giusto due anni fa
cominciava il Conclave che l’indomani, alle 18.50 del 13 marzo,
avrebbe eletto l’arcivescovo di Buenos Aires. Il cardinale occupava
la stanza 207, il Papa si limitò a spostarsi nella 201 e cambiò
tutto. Ne sa qualcosa la guardia che pochi giorni dopo vegliava in
corridoio sul sonno pontificio. Marzo 2013, prima dell’alba. Si
apre la porta ed esce il Papa che vede accanto alla soglia un giovane
svizzero, irrigidito sull’attenti, lo sguardo fisso davanti a sé.
«Sei stato in piedi tutta la notte, figlio?». Il ragazzo deglutisce
e mormora che in effetti non proprio tutta, ha dato il cambio a un
collega. Francesco annuisce, rientra in camera e ne esce con una
sedia. Si narra anche di un panino con la marmellata. La guardia
svizzera cerca di obiettare che il regolamento vieta di sedersi (per
tacere della colazione servita dal Pontefice, chi lo sente il
comandante), ma il Papa lo rassicura — anche perché in Vaticano,
in fin dei conti, comanda lui — e il ragazzo si siede.
Ecco, i
«muri» hanno cominciato a crollare anche così. A partire dalla
scelta di non vivere nell’«imbuto rovesciato» dell’Appartamento
apostolico ma in albergo, «non posso vivere da solo», riservando a
sé quella cinquantina scarsa di metri quadri: anticamera, studio con
tavolino e due librerie a parete, stanzetta da letto monastica,
arredi ridotti all’essenziale di legno scuro, luci al neon. Non è
stato facile, ma in un paio d’anni chi vive e lavora in Vaticano e
soprattutto nel «Convitto» — il Papa gesuita chiama l’albergo
così, come in una comunità di religiosi — ha finito col farci
l’abitudine. «Mah, io cerco di essere libero, ci sono appuntamenti
di ufficio, di lavoro... Veramente mi piacerebbe poter uscire, però
non si può... Ma poi la vita, per me, è la più normale che posso
fare», ha spiegato ai giornalisti che gli chiedevano se non si
sentisse prigioniero, lui che a Buenos Aires girava in metrò. «No,
no. All’inizio sì, ma adesso sono caduti alcuni muri, non so, tipo
“il Papa non può!”. Un esempio, per farvi ridere: vado a
prendere l’ascensore e subito viene uno, perché il Papa non poteva
scendere in ascensore da solo! E perché? Ma tu vai al tuo posto, che
io scendo da solo!».
Nel senso che non vuole accompagnatori: se
invece le porte si aprono e c’è già qualcuno, altri ospiti o
dipendenti che all’inizio tentavano imbarazzati di uscire («ma no,
ci stringiamo e ci stiamo tutti»), Francesco non si fa problemi,
conversa, chiede delle famiglie, «la normalità della vita». Una
vita fitta di impegni e incontri, quella del Papa. Ma la seconda
delle «malattie» che a Natale elencava alla Curia è quella della
«eccessiva operosità» che «fa trascurare la parte migliore:
sedersi sotto i piedi di Gesù». Prima di scendere per la messa
delle sette — ogni mattina dal lunedì al venerdì, tranne il
mercoledì dell’udienza generale — il Papa gesuita, formato alla
meditazione ignaziana, resta per due ore da solo in camera. Ufficio
mattutino, preghiera dei Salmi, Letture del giorno e preparazione
dell’omelia. Qualche minuto prima delle sette è già nella
cappella in fondo all’atrio. Dai dipendenti vaticani ai fedeli
delle parrocchie romane, ogni giorno la messa si riempie di poche
decine di fedeli. Il Papa saluta e parla con tutti, si sofferma
ancora a pregare, quindi va a fare colazione nel «refettorio»
comune. Siede a un tavolo laterale a sinistra dell’ingresso con i
due segretari e gli aiutanti, il suo tovagliolo in una bustina come
gli altri ospiti, salvo la scritta «P. Francesco», perché
all’inizio glielo cambiavano tre volte al giorno e a lui — come
ha raccontato Aldo Maria Valli nel libro Con Francesco a Santa Marta
— non sembrava il caso: «Ma che spreco! Perché bisogna cambiare
un tovagliolo pulito?».
Poi gli impegni cominciano. Nello
studio del Papa arrivano i «cifrati» dalle nunziature del mondo, la
rassegna stampa, una selezione delle migliaia di lettere che gli
arrivano dai fedeli, documenti vari. Le udienze di tabella e gli
incontri avvengono di norma al Palazzo apostolico — salvo
eccezioni, come quando accolse a Santa Marta Shimon Peres e Abu Mazen
— così Francesco si sposta quasi ogni mattina nella residenza
ufficiale: nella bella stagione si concede una passeggiata,
sorvegliata con discrezione dai gendarmi vaticani, ma di solito usa
la Ford Focus blu targata SCV 00919 che era assegnata ai servizi
generali prima che Bergoglio («ecco, quella per me va bene») la
vedesse per caso parcheggiata. Avanti e indietro dal Palazzo
apostolico a Santa Marta, da una a tre volte al giorno secondo i
casi, c’è anche la macchina della Gendarmeria che porta al Papa la
borsa di documenti inviata dalla Segreteria di Stato.
Verso le
13 Francesco torna nel refettorio, dove pranzano anche gli altri
ospiti — funzionari della Segreteria di Stato e vescovi, sacerdoti
e religiosi — e il personale. Capita che vada a salutare in cucina.
Qui si misura la portata della scelta di Bergoglio, capace di
spezzare quel clima da «corte» rinascimentale nel quale il «potere»
in Vaticano era misurato dall’essere o meno ammessi
all’Appartamento del Papa. Dopo pranzo Francesco risale in camera
per una mezz’ora di riposo, poi si ricava un altro spazio di
preghiera prima di ricominciare a lavorare nello studio di Santa
Marta per tutto il pomeriggio.
Incontri, lettere, telefonate.
Chi gli è vicino racconta di ritmi serrati, le uniche pause dedicate
al Rosario. La cena è alle 20 ma «la sera, tra le sette e le otto,
sto davanti al Santissimo per un’ora di adorazione», spiegava a
padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica . «La
preghiera per me è sempre una preghiera “memoriosa”... Per me è
la memoria di cui Sant’Ignazio parla nella prima settimana degli
Esercizi nell’incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi
chiedo: “Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo?
Che cosa devo fare per Cristo?”». Dal refettorio, finito di
cenare, Francesco torna in camera presto, intorno alle 21. Il letto
sormontato da un Crocifisso, un armadio, un mobile con sopra una
statuetta di legno policroma che si è portata da Buenos Aires e
raffigura San Giuseppe dormiente. «Il riposo di Giuseppe gli ha
rivelato la volontà di Dio», raccontava in gennaio alle famiglie di
Manila. «Sul mio tavolo ho un’immagine di San Giuseppe che dorme.
E mentre dorme si prende cura della Chiesa. Quando ho un problema,
una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San
Giuseppe, perché lo sogni».
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