Corriere della Sera 12/03/15
Luigi Ferrarella
Ha parlato la Cassazione e dunque non
c’è altro da dire, continua a motivare il proprio silenzio la
giudice Concetta Locurto, l’estate scorsa in appello relatrice
della sentenza di assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo Ruby.
E del resto nemmeno aveva voluto pubblicamente reagire 5 mesi fa agli
attacchi e implicite insinuazioni su cosa di oscuro potesse essere
accaduto attorno al processo per spingere il 16 ottobre 2014 il suo
collega e presidente del collegio Enrico Tranfa — la mattina stessa
del deposito delle motivazioni — alla scelta senza precedenti di
dimettersi dalla magistratura per marcare la propria dissociazione da
un verdetto lasciato intendere frutto di «una giustizia di Ponzio
Pilato», nella quale «non me la sento domani di giudicare un
marocchino in un modo diverso da quanto fatto oggi per
Berlusconi».
Locurto non replicò. Ma ieri a Palazzo di
giustizia, nei capannelli dei suoi colleghi dopo la Cassazione di
mezzanotte, si viene a sapere che nei mesi scorsi, quando la giudice
aveva visto una folla di magistrati sulle mailing-list accreditare
l’idea che l’assoluzione fosse stata determinata da una qualche
«torsione del diritto» per motivi extragiuridici, a molti colleghi
aveva indirizzato un piccolo scritto. Una lettera della quale ieri è
stato inutile provare a chiederle, ma il cui contenuto, nonostante il
rifiuto della giudice, è ricostruibile sul versante dei
destinatari.
In essa non difendeva la bontà o meno della
sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di «una malevola
dietrologia faziosa», del «pregiudizio», dei «pensieri in libertà
da chiacchiera al bar», che vedeva «serpeggiare» e le parevano
oltremodo «allarmanti» perché provenienti da «magistrati che
giudicano senza conoscere», finendo — proprio loro — per
partecipare al «tiro al piccione senza alcun rispetto per
l’Istituzione e le persone».
Il piccione in quel momento era
lei. Tanto più perché giudice progressista, stimata come molto
preparata, in passato anche impegnata associativamente, ex componente
del Consiglio giudiziario, e già coordinatrice milanese di «Area»,
il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura democratica e
Movimento per la giustizia. Nella lettera Locurto invitava i colleghi
ad andare a rileggersi «i provvedimenti redatti nel corso
dell’intera carriera, piccoli o grandi che fossero», per avere
certezza dell’«identità di metro di valutazione utilizzato
indifferentemente per extracomunitari e potenti»; per trovare
dimostrazione «del disinteresse rispetto al livello di gradimento
delle decisioni che si è chiamati ad adottare»; e per ribadire la
«indipendenza e soggezione alla sola legge», palese riferimento a
quegli anonimi pm milanesi che, citati da un quotidiano con
virgolettati mai smentiti, avevano definito l’assoluzione uno dei
frutti nazareni dell’(allora) accordo Renzi-Berlusconi.
A
rendere infatti «molto amareggiata» la giudice non era tanto quello
che le veniva scaraventato da fuori, ma quello che di difesa non
veniva detto da dentro la sua categoria. Locurto appariva «indignata
dal silenzio irresponsabile che, tranne per rarissime e coraggiose
eccezioni, si è tenuto a fronte alle tante, troppe sciocchezze»,
conseguenze di «settarismo e supponenza che non rendono un buon
servizio alla giurisdizione. Sarebbe il caso che tutti, e
specialmente quelli che si ritengono «magistrati democratici»,
periodicamente rileggessimo e meditassimo le magistrali parole di
Luigi Ferrajoli (il maggiore filosofo italiano del diritto, ndr) , e
in particolare le 9 massime di deontologia giudiziaria illustrate al
congresso di Magistratura democratica del 2013. E poi, magari, ne
facessimo silenziosa applicazione». Tra quei principi figuravano la
consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità
processuale, la disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni,
l’indifferente ricerca del vero. Ma pure il rifiuto anche solo del
sospetto di strumentalizzazione politica della giurisdizione.
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